Panama Papers (The Laundromat), la recensione | Venezia 76

Film tempestivo sullo scandalo, Panama Papers prende in giro più che spiegare fondandosi su piccole storie di truffe

Critico e giornalista cinematografico


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Steven Soderbergh non ha mezze misure. Da una parte gira film minuscoli, solitamente non eccezionali ma che lui ritiene sperimentali, con i quali prova tecnologie, tecniche o stili differenti come Mosaic, Unsane, The Girlfriend Experience o Bubble. Dall’altra gira film più o meno grandi in cui ammassa nomi molto noti in uno slancio esagitato di namedropping finalizzato a piacere a tutti i costi al pubblico. Da Ocean’s Eleven in poi sembra che la sua idea di film “per gli studios” (che in questo caso sono Netflix) sia un’infornata di volti e nomi conosciuti in una grande storia in forma di commedia.

Questo è Panama Papers, un insieme di piccole storie di truffe e truffette (altro grande tema di ricorrente nel cinema commerciale di Soderbergh) affiancate l’una all’altra, alle volte intrecciate, ma sempre unite insieme da uno studio legale. Per spiegare cosa è stato quello scandalo vengono presi piccoli esempi dell’attività dello studio Mossack & Fonseca, come cioè questo aiutasse persone ricche o società d’assicurazione ad aggirare la legge americana e fare più soldi (oppure non versarli) grazie a schemi di società dentro società, dentro società, tutte con sede in paradisi fiscali o legali, spesso isolani. Ed è tutto in forma di commedia, tutto ridicolo, tutto per ridere, introdotto dai due avvocati in questione, raffinati uomini di mondo in smoking con cocktail in mano che parlano in camera come in un documentario didattico.

I due avvocati sono Antonio Banderas e Gary Oldman (che sfoggia un accento tedesco), solo due dei molti volti famosi del film che compaiono un po’ ovunque in ruoli anche piccoli.

Sono storie di avidità, di persone che tengono i soldi per sé, ne vogliono fare di più, non accettano le regole. Più che un film di denuncia sembra un piccolo passatempo ironico con dietro una motivazione etica molto forte. Ma non c’è molto di più, non c’è né la caratura dell’indignazione né un’idea critica potente né tantomeno una visione di mondo. Non c’è né una spiegazione ben fatta, né una trama appassionante che conduca attraverso un viaggio magari non informativo ma almeno sentimentale! No, niente di tutto ciò.

L’unico momento serio arriva alla fine quando Meryl Streep, rivelandosi come tale, recita il manifesto di John Doe, ovvero la talpa che ha fatto uscire i documenti necessari allo scoppio dello scandalo. Si tratta di un momento non da poco, perché lei, e quindi tutto il film, si appropriano di quelle parole e quelle frasi che sono di una figura (il whistleblower, cioè la talpa come è stato Edward Snowden) considerata criminale negli Stati Uniti e generalmente osteggiata dall’autorità.

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