Panama Papers (The Laundromat), la recensione | Venezia 76
Film tempestivo sullo scandalo, Panama Papers prende in giro più che spiegare fondandosi su piccole storie di truffe
Questo è Panama Papers, un insieme di piccole storie di truffe e truffette (altro grande tema di ricorrente nel cinema commerciale di Soderbergh) affiancate l’una all’altra, alle volte intrecciate, ma sempre unite insieme da uno studio legale. Per spiegare cosa è stato quello scandalo vengono presi piccoli esempi dell’attività dello studio Mossack & Fonseca, come cioè questo aiutasse persone ricche o società d’assicurazione ad aggirare la legge americana e fare più soldi (oppure non versarli) grazie a schemi di società dentro società, dentro società, tutte con sede in paradisi fiscali o legali, spesso isolani. Ed è tutto in forma di commedia, tutto ridicolo, tutto per ridere, introdotto dai due avvocati in questione, raffinati uomini di mondo in smoking con cocktail in mano che parlano in camera come in un documentario didattico.
Sono storie di avidità, di persone che tengono i soldi per sé, ne vogliono fare di più, non accettano le regole. Più che un film di denuncia sembra un piccolo passatempo ironico con dietro una motivazione etica molto forte. Ma non c’è molto di più, non c’è né la caratura dell’indignazione né un’idea critica potente né tantomeno una visione di mondo. Non c’è né una spiegazione ben fatta, né una trama appassionante che conduca attraverso un viaggio magari non informativo ma almeno sentimentale! No, niente di tutto ciò.