Palmer, la recensione

Incapace di andare oltre la propria missione, dare un ruolo intenso a Justin Timberlake, a Palmer interessa più l'attore che il personaggio

Critico e giornalista cinematografico


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Questo film lo conosciamo. E lo conosciamo perché l’abbiamo già visto. È la storia di un affido difficile ad una persona che inizialmente nemmeno lo vorrebbe. L’eroe riluttante, vinto alla lunga dai sentimenti e dalla convivenza con un bambino. Del proprio genere Palmer ha tutto: ha il protagonista inizialmente riottoso alla paternità, ha le difficoltà a trovare un lavoro e quindi dimostrarsi valido per un affido, ha i genitori inaffidabili che scompaiono e riappaiono rivolendo il figlio proprio quando finalmente si è creato un legame e ha il bambino tenero pieno di difficoltà in un contesto non facile. Il protagonista qui è Justin Timberlake appena uscito di galera, che non è propriamente un grande aiuto sul lato plausibilità. Timberlake non è qui per il film, infatti, è qui per la sua carriera, è qui per l’intensità. Questo film è per lui un veicolo di credibilità, l’ideale hollywoodiano del ruolo intenso per accadere ad altri ingaggi migliori. Il resto sono dettagli.

Unico punto interessante di tutta la storia è il fatto che il bambino in questione ha una sessualità fluida per quanto non ancora formata. Fa giochi da bambine con le bambine, si vuole vestire da fatina ad Halloween e tutto in un paesino di provincia non propriamente progressista. L’attore, Ryder Allen, non è niente male come volto e come corpo, e il suo personaggio, a differenza degli altri, è scritto molto bene, pieno di sfumature e con un’interessante disinteresse per la comprensione della propria diversità, ma anzi un’innata e fortissima decisione nell’accettarla per com’è nonostante i problemi che gli pone e l’odio dei genitori biologici che gli attira. Un film su di lui sarebbe stato di certo più interessante. Invece tutto è ad uso e consumo di Timberlake e anche le donne che gli girano intorno esistono come motore della storia (la madre snaturata) o come sparring partner prive di personalità utili a tirare fuori i sentimenti del suo personaggio.

Dunque il problema di Palmer (non a caso il nome del personaggio di Timberlake, vero cuore del film e non del bambino) non è tanto che sappiamo bene dove sta andando la storia, né il fatto che sappiamo anche esattamente che strada prenderà per arrivarci (e il film non finge nemmeno di volerci smentire) ma il fatto che sappiamo troppo bene l’evoluzione sentimentale, personale e umana dei personaggi a cosa porterà e quali percorsi prenderà.

Fisher Stevens, una vita da attore e qui regista, sembra non voler davvero fare questo lavoro. L’indefessa determinazione con la quale Palmer non vuole distinguersi in nulla, la maniera scientifica con la quale ricalca il modello base delle storie di paternità scoperta, mette ogni spettatore nella condizione di attendere esattamente quello che arriverà e misurare quelle attese con il risultato che vedono. E non è un buon paragone.

Soprattutto quando viene calcato così tanto lo scheletro di una struttura base, senza cercare di variare o di nascondere una scrittura così pedissequa è impossibile cedere alla credibilità della storia e rendergli il tributo di commozione che pretende alla fine, con la sua piccola svolta dal grande valore. Se tutti si comportano come si comportano sempre le persone in questi film, se le cose andranno come vanno sempre e se i personaggi cambieranno idea e matureranno un’altra consapevolezza esattamente negli stessi momenti e con le stesse ragioni viste altrove, beh allora sarà difficile proprio che appaiano reali e facile che suonino scritte ad arte.

Solo un attore potrebbe compiere il miracolo di rendere credibile ciò che ha così tanto il sapore di artefatto, ma non è il caso di Justin Timberlake, che il meglio lo dà quando gli viene chiesto di recitare con enfasi, non su questi toni contriti, tesi e trattenuti.

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