The Pale Blue Eye - I delitti di West Point, la recensione

C'è una strana distanza tra le ambizioni della sceneggiatura di The Pale Blue Eye e quelle del film che pare vergognarsi della sua leggerezza

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di The Pale Blue Eye - I delitti di West Point, in uscita su Netflix il 6 gennaio

Una detective story con un detective moscio, poco interessante e privo di tutti quegli angoli e quegli spigoli che di solito hanno gli investigatori dei romanzi. Augustus Landor non spicca nemmeno nel suo essere un uomo come tanti (come faceva il tenente Colombo), è di poche parole, non ha fissazioni, né caratteristiche particolari, viene chiamato ad indagare sul caso di un cuore prelevato da un cadavere di un uomo che si è impiccato e lo fa con diligenza e buone intuizioni. Nulla di più emergerà nemmeno quando alla fine sarà il momento delle grandi rivelazioni. È così perché il vero personaggio di The Pale Blue Eye - I delitti di West Point è il suo aiutante trovato in loco, a West Point, tra i cadetti: Edgar Allan Poe.

Siamo nel reame del fantasioso (ma non del fantastico) e del predittivo, cioè quel tipo di storie che hanno al centro figure che saranno grandi e che in sé contengono mille richiami, germi e indizi di quel luminoso futuro. Qui ci sono i corvi, ci sono i pallidi occhi celesti (appartengono ad una ragazza di cui si innamora, che sorpresa), c’è un cuore rivelatore (da quella storia breve viene pure il titolo) e una Leonore (di nuovo, tutte storie di amori infelici), soprattutto c’è l’atmosfera gotica resa con una coperta di color correction blu e abbassando la luminosità di tutti i fari sul set. Per il resto l’indagine che Scott Cooper si affanna a mettere in scena lavorando tantissimo di fotografia con Masanobu Takayanagi (con cui ha lavorato di frequente nei suoi altri film da Hostile a Black Mass), è una sceneggiatura classica adattata da lui stesso da un romanzo dei primi anni 2000.

Molto serioso e grave quando ha a che fare con il detective Landor (del resto interpretandolo Christian Bale, la possibilità di uno squarcio di ironia non esiste) e più giocoso quando entra Poe, nei suoi momenti migliori The Pale Blue Eye migliori somiglia a Piramide di paura con la luminosità al minimo. Ha una maniera molto leggera di giocare con questo suo co-protagonista che non ci mette molto a prendere il vero riflettore, ad avere l’arco narrativo interessante, a cambiare, mutare, essere in difficoltà e addirittura coinvolto in scene (un po’) d’azione. Alla fine è la storia di come Poe abbia maturato una parte della sua poetica in quest’avventura giovanile. Solo presa dannatamente sul serio.. Harry Melling interpreta il futuro poeta benissimo però, con l’aria stralunata del nerd fuori dal mondo e il cuore in tumulto per ogni cosa, sa essere strano quando dice cose normali e in fondo normale quando afferma le cose più strane, tenendo così credibile l’equilibrio tra il genio e l’outsider.

In un film in cui i personaggi sono americani ma sono interpretati quasi tutti da attori inglesi (Melling, Bale, Gillian Anderson, Timothy Spall, Simon McBurney, Toby Jones…) con un teatralismo che tutto insieme appesantisce un po’ il racconto e, cosa incredibile, non è invece utilizzato nel sottofinale d’azione fiammeggiante, l’impressione forte è che Cooper abbia pensato di essere migliore della sceneggiatura che gli è capitata. Scritto così questo è cinema anni ‘90, anche buono, un film leggero e di tensione che è stato trasformato forzatamente in qualcosa di ben più ponderoso senza che ne esistano le basi. E quanto è peggio sembra non averlo detto agli attori! Così anche quel che di divertente si poteva cavare da questa storia di misteri, indagini e morti improvvisi viene schiacciato da pretese di cui, vista la scrittura, davvero non si comprende la ragione.

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