Palazzina LAF, la recensione

Tutto il suo piacere Palazzina LAF sembra metterlo nella parte di denuncia e non ne rimane per l'atto di scrivere e girare un film

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Palazzina LAF, l'esordio alla regia di Michele Riondino in sala dal 30 novembre

C’è una grandissima fierezza in questo esordio alla regia di Michele Riondino (su una sceneggiatura dello stesso Riondino con Maurizio Braucci). Si percepisce un grande orgoglio nel raccontare una storia di fabbrica, dell’Ilva di Taranto, di operai maltrattati e padroni arroganti. E si percepisce una grande fierezza nel raccontarla proprio così, a tinte forti con personaggi netti e tagliati appositamente con l’accetta. Elio Germano è un luogotenente che esercita con sadismo un piccolo potere datogli dai suoi superiori, assenti nel migliore dei casi, distanti e superiori nel peggiore. Michele Riondino invece è un operario derelitto che tuttavia appartiene a una famiglia in cui un membro ha contato qualcosa e per questo avrà un’occasione di migliorare la sua situazione. Almeno questo è quello che gli fanno credere.

Germano ha un ruolo che gli consente di esagerare con il registro ma mai quanto quella di Riondino, una maschera. Il protagonista di Palazzina LAF infatti vive in un buco (letteralmente) ha una brillantina d’altri tempi e modi, toni, ragionamenti e mentalità ugualmente d’altri tempi. Ignorante e meschino, egoista e privo di una coscienza sociale sembra destinato a maturarne una nel corso della storia. Solo che Palazzina LAF è tratto da una storia vera e quindi è più complicato di così. Almeno negli esiti perché il film, in sé, di complicato ha poco.

Calcato con un’enfasi nella recitazione che non corrisponde a tutto il resto della messa in scena e che fa sembrare Elio Germano e Michele Riondino come personaggi di un altro film, questa storia di mobbing ad alti livelli sembra essere concepita per raccontare la pratica in sé più che le persone. È una storia in cui si comprende come il mobbing possa essere un maltrattamento devastante, una forma di tortura che distrugge vite intere, ma nella quale non teniamo a nessuno. Anzi. Il protagonista arriva in uffici che sembrano un manicomio, cioè quei posti in cui anche persone normali possono peggiorare, e il fatto che questa sia la parte migliore di tutto il film, cioè proprio come è gestito lo spazio nella palazzina, come sia trattato visivamente per accostare l’estetica da ufficio statale a quella da manicomio, va a discapito dell’esplorazione delle persone e di una scrittura abbia a cuore un po' di cinema.

C’è nel protagonista un contrasto che intuiamo ma non capiamo. Nelle persone intorno a lui invece non ci sono che certezze. La certezza che alcuni siano dei mostri creati dal mobbing. La certezza che altri siano aguzzini. La certezza che chiunque non abbia un po’ di potere sia una vittima e basta. È una forma di accusa (non era difficile da intuire) che però non prende mai la via del cinema ma sempre quella della favola (nonostante sia tratto da una storia vera), cioè quei racconti in cui il destino dei personaggi è segnato dall’inizio e la loro parabola non è umana ma morale. Non c'è nessun piacere nel mettere i personaggi in situazioni interessanti o nel fargli attraversare una tempesta che metta alla prova loro (e quindi noi), solo il piacere di mostrare chi sono i buoni e i cattivi nel mondo reale.

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