Un Paese Quasi Perfetto, la recensione

Con le idee di Benvenuti al Sud e la voglia di scrivere una sceneggiatura piena di ellissi, Un Paese Quasi Perfetto finisce per perdere le parti migliori

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Il ritorno al cinema da regista dello sceneggiatore Massimo Gaudioso (l’unico in Italia ad aver preso parte al massimo dell’autoriale con i film di Matteo Garrone e al massimo del commerciale con Benvenuti al Sud) è tutto fondato sulle ellissi. Dopo aver messo in chiaro le fondamenta della sua storia, Un Paese Quasi Perfetto sembra infatti metodicamente negare i presupposti dell’azione e in alcuni casi addirittura anche gli esiti delle gag. Il film nasconde moltissimi momenti che altri considererebbero chiave o a cui non rinuncerebbero, finendo con l’asciugare al massimo un racconto tra i più usuali e prevedibili fino a lasciare solo l’indispensabile.

È la storia di un paese di provincia popolato di brave persone, ma lontano da tutto e privo di possibilità di lavoro. Questo problema potrebbe essere risolto se solo una fabbrica si decidesse ad aprire una sede lì, per questo però serve un medico disposto a trasferirsi in loco. Quando l’occasione sarà propizia tutti faranno in modo di ingannarne uno fingendosi abitanti del paese dei suoi sogni.
Non è difficile vedere in controluce molti degli aspetti di successo di Benvenuti al Sud in questo film. Un Paese Quasi Perfetto condivide con quel film l’idea della provincia come soluzione a tutti i mali della vita, paradiso idilliaco dei veri valori e inoltre anche il meccanismo comico del camuffamento di gruppo.
Tutto però ha un sapore claudicante per la maniera in cui Gaudioso sceglie di non spiegare gli eventi e di non fornire troppi dettagli.

Il medico esprime il desiderio di mangiare sushi e sashimi, così la trattoria locale finge di averne, storpiandone il nome e non avendo nemmeno capito di che si tratti, ma esaurita la gag non sappiamo poi che succede, cosa gli porteranno da mangiare o come ne usciranno.
L’ex sindaco scappa dal paese e si trasferisce in città, lì incontra il medico e lo convince a trasferirsi al paese. Ma tutti gli abitanti della zona hanno una cadenza campana mentre il medico vive palesemente nel Nord Italia. Non sembra possibile ci siano punti d’incontro e non sapremo mai di che città si tratta.
Il medico si lascia con la sua fidanzata, cosa che lo getta in una terribile disperazione ma noi non vediamo né sentiamo l’evento, ci viene riferito che è una storia d’infedeltà con un personaggio che peraltro abbiamo anche già visto, eppure nulla più è mostrato, contano solo le conseguenze.

Tutto procede insomma a grandi cavalcate verso i temi centrali e più popolari (la paternità, la ricerca di una morale, la conversione ad un ridimensionamento della propria vita che equivale ad un suo miglioramento) ma l’impressione è che questo genere di film abbiano da dire più con il contesto, lo sfondo, le gag marginali e i caratteristi che con la trama principale. Non è solo un’idea che viene dalla tradizione di commedie popolari italiane, ma anche una che può essere confermata dagli esempi più recenti che, quando sono capaci di incidere, lo fanno proprio con ciò che invece Un Paese Quasi Perfetto decide di saltare, lasciandoci ad avere a che fare con le componenti più smielate e ripetitive.

Continua a leggere su BadTaste