PADRENOSTRO, la recensione | Venezia 77

Claudio Noce riduce la pressione degli anni di piombo alla pressione psicologica di un bambino, perdendo però lungo la strada la chiarezza di un vero obiettivo tematico.

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Roma, 1976. Ispirato alla storia vera dell’attacco terroristico subito dal padre del regista Claudio Noce da parte dei Nuclei Armati Proletari quando questo era un bambino, PADRENOSTRO è il tentativo cinematografico di rimarginare una ferita personale. Costruendo un dramma che vede il solo bambino (appunto l’alter ego del regista) come centro di attrazione della storia, Noce riduce la pressione degli anni di piombo alla pressione psicologica (inconscia) di un personaggio totalmente estraneo alla possibile comprensione razionale di quel periodo, perdendo però lungo la strada la chiarezza di un vero obiettivo tematico.

Da una parte infatti la storia sembra andare nella direzione del rapporto padre-figlio. Il piccolo Valerio (Mattia Garaci) traumatizzato dall’avere assistito con i proprio occhi alla sparatoria che costò quasi la vita a suo padre (Pierfrancesco Favino) cerca continuamente la figura paterna e lotta quotidianamente contro il suo allontanamento fisico ed emotivo. Poi però arriva Christian (Francesco Gheghi), un quattordicenne da borgata che ha le sembianze di una visione, e che diventa amico di Valerio. Proprio la figura di Christian innesta un altro tema: questo infatti, reso come puro frutto dell’immaginazione di Valerio, sembra voler rappresentare l’impossibilità razionale del bambino. Stiamo forse andando nella direzione della metafora?

Così pare in un primo momento, e invece no, poiché Christian è verissimo. E allora ecco che nella seconda parte del film il tutto si concentra sull’amicizia di questi due, sulla possibilità per Valerio di trovare un po’ di serenità nell’essere un “bambino normale”. Insomma, durante la visione di PADRENOSTRO il sentimento che prevale sembra essere quello della confusione: si è continuamente alla ricerca di un evento, di un obiettivo, che la storia non sembra mai raggiunge. Poi ecco che arriva, e allora – ma solo proprio alla fine – si comprende il tentativo iniziale.

Se quindi la riflessione tematica si affonda nella confusione della trama, va però sicuramente elogiata la capacità di Claudio Noce di lavorare sulla tensione: si ha infatti sempre la sensazione di essere in pericolo, che qualcosa di brutto accadrà da un momento all’altro. Noce sa lavorare sulla scena, sui tempi, e sa dirigere gli attori. Il piccolo attore che interpreta Valerio è infatti capace di reggere un intero film come protagonista (da quando, nel cinema italiano, non si vedeva un bambino totalmente protagonista?). Favino ovviamente va da sé, ovunque lo si metta riesce a essere impeccabile.

Ma la compattezza della visione estetica, e insieme la capacità di fare respirare le scene, non possono bastare per fare arrivare un messaggio. Sul finale poi, purtroppo, Noce si incarta nella volontà di aggiungere, rincarare la dose, scadendo nel melenso e nel superfluo. Peccato per la storia, ma aspettiamo comunque un suo prossimo film: magari un thriller.

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