Pacifiction, la recensione | Cannes 75

Ai confini del mondo, il terrore nucleare rende il mondo sempre più ambiguo intorno ad un attendente francese

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Pacifiction, il film di Albert Serra presentato in concorso a Cannes

Cosa vuole fare Albert Serra? Cosa vuole creare con Pacifiction?
Il paradiso tropicale, che tanto paradiso non è, in cui finisce un attendente francese per rassicurare i locali che le voci di imminenti nuovi test nucleari francesi (a 20 anni da Mururoa) sono infondate, è il terreno di gioco di questo film. Più l’attendente rimane in loco (e quindi noi rimaniamo lì con lui) più quel paradiso tropicale inizia a slittare. Slitta la fotografia, slittano gli attori e slittano gli ambienti fino a che tutto insieme, con anche la sceneggiatura, non slitta definitivamente nel territorio dell’ambiguo e dell’indefinito.

Aumentano i corpi tra il maschile e il femminile, aumenta la doppiezza dei personaggi (di giorno in un modo, di notte in un altro) e aumenta l’idea che quel posto si stia trasformando in un luogo cinematografico lynchano, cioè in una zona liminale nella quale ognuno è a cavallo tra due mondi e l’intuizione è molto più utile della logica. Di sfondo c’è sempre questa paura atomica, questo sottomarino fantomatico che viene avvistato (o forse no) come fosse il mostro di Loch Ness, e ci sono gli sforzi di fare politica locale e internazionale di uno straniero arrivato a fare il colonialista, a mentire per conto dello stato madre.

Ma se la trasformazione di un luogo, di un discorso politico e anche dell’ambiguità delle nazioni, in ambiguità del cinema è una delle più evidenti intenzioni di Serra, è anche chiaro che a fronte di questa evidenza le quasi 3 ore del film non fanno nulla per meravigliare e creare quelle anse di mistero, inquietudine e fascino che stimolano a interrogarsi sulle immagini. Pacifiction è terra sterile in cui sappiamo cosa è stato piantato ma tanto non cresce niente.

La cosa è evidente quando ad un certo punto invece un senso fa capolino per qualche minuto, forse non a caso nell’unica scena spuria, diversa dal resto, di tutto il film. Avviene quando tutti vanno a vedere una gara di surf lì dove si svolge, accanto alle onda giganti, con una coda di barchini precari in un mare con onde grandi e violente, barchini che si tengono sempre miracolosamente ad un pelo dal rompersi dell’onda nella tranquillità generale. Un momento di assurdo pericolo gestito con sicurezza e anche uno dei pochi momenti veri del film, in cui l’artificiosità ricercata della messa in scena è messa da parte ed emerge qualcosa di realmente ambiguo, realmente filmato e realmente avvenuto, un’immagine per un attimo herzoghiana di vita ai confini del mondo e meraviglia dell’uomo che domina la natura bellissima.
Il resto è un altro film.

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