Pacific Rim: La zona oscura: la recensione
Cuore americano, anima giapponese, Pacific Rim: La zona oscura è il tentativo di espandere il franchise dei due film precedenti
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Pacific Rim: La zona oscura: la recensione
Cuore americano, anima giapponese, Pacific Rim: La zona oscura è il tentativo di espandere il franchise dei due film precedenti. Non è solo la riproposizione degli elementi di base di questo universo, ma un tentativo di andare oltre il semplice scontro tra jaeger e kaiju. Questa prima stagione da appena sette episodi è allora il tentativo di Greg Johnson e Kyle Craig di costruire le basi di quell'universo espanso. Per farlo, scelgono la strada più battuta, sovrapponendo cliché narrativi e caratterizzazioni standard. Eppure, forse perché la storia dà l'idea di credere davvero a quello che sta raccontando, il risultato è buono.
Dove i due film americani (il primo diretto da Guillermo Del Toro) trovavano parte del loro senso nel divismo eroico dei personaggi, nei grandi discorsi pompati sulla fine del mondo e nell'alternanza con scene più leggere, Pacific Rim: La zona oscura fa altro. Rimane americano nella produzione e nella scrittura, ma coltiva molto di più l'influenza giapponese alla base del tutto. La serie Netflix è stata animata dallo Studio Polygon, la regia è tutta di nomi nipponici, ma è stranamente proprio la scrittura ad essere palesemente influenzata dai modelli del Sol Levante. La premessa stessa sembra un omaggio all'inizio di tante storie sui "robottoni". Orfano trova macchina abbandonata, per caso più che per scelta ci sale sopra, e ne diventa il pilota.
Sarà chiaro dopo aver visto i sette episodi, questa serie non è solo una piccola vicenda tra le mille avvenute nel mondo di Pacific Rim, ma un punto di svolta che potrebbe cambiare tutto.