Pachinko (prima stagione), la recensione

Alternando il melodramma dei buoni sentimenti alla brutalità della storia, Pachinko celebra la resistenza di un popolo devastato e disperso

Condividi
La recensione della prima stagione di Pachinko, dal 25 marzo su Apple TV+

"Non è una vergogna sopravvivere." Nelle parole di Mozasu (Soji Arai) rivolte alla madre Sunja (Yuh-Jung Youn, premio Oscar per Minari) è racchiusa l'essenza di Pachinko, affresco familiare in otto puntate tratto dal pluripremiato romanzo di Min Jin Lee La moglie coreana. Osservandola superficialmente, si potrebbe erroneamente ridurre la serie Apple a una saga dal sapore intimista, un polpettone decennale che alterna linee temporali senza particolare originalità.

Un compitino ben fatto, con una musica strappalacrime ben spalmata su quasi ogni singolo fotogramma. Sembra quasi di sentire la morbida carezza di una nonna sulle nostre spalle mentre seguiamo le traversie della protagonista Sunja da bambina, da adolescente e da anziana. Una carrellata di buoni sentimenti (traditi e non), un inno al senso più profondo del termine famiglia. Una visione rassicurante e incline alla lacrima, seppur attraverso una cornice stilisticamente maestosa e una corona d'interpreti in stato di grazia.

Dietro la maschera

Sarebbe, però, un'analisi approssimativa e non corrispondente ai reali meriti di Pachinko. Sotto la patina confortante del racconto di tre generazioni di coreani trapiantati in Giappone, la serie di Soo Hugh (già showrunner dell'impareggiabile prima stagione di The Terror) cela una dolente, orgogliosa rivendicazione. Al di là dei pur fondamentali intrecci amorosi, il cuore di questo mirabile arco narrativo risiede altrove; è un urlo straziante e potente, che denuncia l'orrore subito dal popolo coreano nel corso del XX secolo senza indulgere, nella rappresentazione storica, in facili pietismi.

Ogni avvenimento privato diviene cassa di risonanza dei macro avvenimenti che fanno da sfondo alla storia di Sunja. Un intero episodio, quasi un racconto a sé, viene dedicato alla rievocazione del terremoto del Kanto nel 1923; è certo la puntata più brutale, ma anche la più essenziale di tutta Pachinko, intrisa di sofferenza silenziosa, impregnata di discriminazione portata alle estreme conseguenze.

Pachinko

Croce e sevizia

Nella difficoltà, l'uomo reagisce in due modi: avvicinandosi alla bestia o rialzando il capo, rivendicando la propria dignità. Pachinko ci mostra perfettamente questi due lati della stessa, devastata medaglia. I tanti personaggi che ne animano il palcoscenico reagiscono in modi diversi alla tragedia che li ghermisce, anno dopo anno, senza conceder loro apparente tregua. Eppure, sembra dirci la serie, c'è sempre speranza. Rialzare la testa vuol dire dar voce a quella speranza, portando con onore la croce che la storia ci impone.

La mente corre allo splendido monologo di Nina da Il Gabbiano, di Anton Cechov: "Sappi portare la tua croce e credi." Sunja, a suo modo, non ha mai smesso di credere; sbagliando, rovinando persino la vita di alcuni dei suoi cari, ma continuando a rialzarsi e a portare, appunto, la sua croce. Croce condivisa da tanti immigrati coreani, stranieri malvisti e sfruttati, orfani delle proprie radici obbligati a chinare il capo per accogliere il sopruso del padrone.

La macchina del tempo

Rispetto al romanzo da cui muove i propri passi, Pachinko dimostra un uso creativo del fluire del tempo, preferendo - all'ordinata cronologia del materiale letterario - un andirivieni tra l'inizio del Novecento e gli anni Ottanta. Ciò contribuisce non solo a creare un ritmo vario e caleidoscopico alla stagione, ma anche a creare efficaci parallelismi tra personaggi, consentendo al pubblico di confrontarne le azioni e reazioni. Il tutto compone un mosaico emotivo fitto e dettagliato, a cui è praticamente impossibile restare indifferenti.

È un racconto di parole e immagini che concorrono, in egual misura, a emozionare lo spettatore; l'occhio della macchina da presa, attraverso la regia di Kogonada e Justin Chon, passa con disinvoltura dagli algidi corridoi di un'azienda di Tokyo alle fangose stradine dei bassifondi di Osaka, fino a enfatizzare, come una strabiliante macchina del tempo, la metamorfosi dei medesimi posti nel corso dei decenni.

Che ci sia o no una seconda stagione (questi primi episodi non coprono l'interezza del romanzo originale), Pachinko ci ha fatto dono, nella delicata confezione del dramma familiare, di uno spaccato di storia a noi del tutto ignoto. La storia (immaginaria) di Sunja è, lo sottintende l'epilogo, quella (reale) di tanti suoi connazionali; se c'è qualcosa di cui dobbiamo ringraziare Pachinko, è di averci insegnato, senza il rigore del professore, una pagina di Novecento che difficilmente cancelleremo dalla mente. Non c'è vergogna nel sopravvivere; c'è orgoglio, grande orgoglio, nel ricominciare a vivere.

pachinko

Continua a leggere su BadTaste