Ozark (terza stagione): la recensione
Ozark è più godibile e giustificato rispetto alla seconda stagione, ma mai al punto da essere esaltante
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All'inizio della sua storia, era semplice paragonare Ozark a Breaking Bad. Un po' perché il legame era immediato e facile da cogliere per tutti, un po' perché effettivamente qualche punto in comune c'era. Una persona mediocre che aspirava alla grandezza e si lasciava trascinare in una spirale criminale. Martin Byrde come Walter White insomma. Qualche anno è passato, e nel frattempo l'unica serie degna di essere accostata a Breaking Bad, per qualità e aspetti comuni, è solo Better Call Saul. Alla terza stagione – non sarà l'ultima a meno di sorprese – il crime drama di Netflix è invece una versione più sopra le righe di Bloodline. Più godibile e giustificato (anche rispetto alla fiacca seconda stagione), ma mai al punto da essere esaltante.
Ogni storyline di Ozark risponde a un tono proprio. C'è il crime drama sfacciato, fatto di piccoli o grandi atti di violenza e prevaricazione che servono a far andare avanti gli affari. C'è la trama famigliare e il rapporto tra Martin e Wendy, grotteschi quando non volutamente ridicoli (qui in particolare c'è la sottotrama della terapia di coppia). C'è il melodramma asfissiante, che qui corrisponde alla vicenda del fratello di Wendy, Ben. E poi ancora le storyline secondarie, materiale da minutaggio come Darlene o la storia della figlia di Helen. Tutto ciò confluisce in dieci episodi fiume che superano quasi sempre la durata di un'ora.
Ozark alimenta il caos controllato dell'intreccio viaggiando su binari sereni e compatti. Ogni pianto, ogni tortura, ogni esplosione di violenza ha lo stesso peso di un momento grottesco. Nulla scalfisce i personaggi, nulla li distoglie dalla superficie dei loro gesti per andare a raccontarne il conflitto interiore, ammesso che ce ne sia uno.