Ovunque Tu Sarai, la recensione

Determinato non a mostrare quel che serve alla narrazione ma a narrare quel che gli va di mostrare, Ovunque Tu Sarai è tutto velleità e niente risultato

Critico e giornalista cinematografico


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Quando verso la metà di Ovunque Tu Sarai i 4 amici in viaggio verso Madrid per vedere la Roma giocare in trasferta entrano in un negozio e ne escono usciti anni ‘70, senza nessun motivo apparente nella storia che abbiamo visto, né un esito che lo giustificherà nella storia che ancora dobbiamo vedere, è evidente che il film abbia ormai superato la linea tra mostrare quel che è utile alla narrazione e narrare quel che gli serve di mostrare.

Ovunque Tu Sarai infatti non ha un’idea chiarissima di cosa fare con questa storia di amici, esperienze, cambiamenti e grandi avventure in viaggio, lo si capisce dalla fatica con cui i singoli episodi e momenti sono legati, da come improvvisamente sono tirate in ballo le svolte. In compenso però confida molto nei singoli momenti (anche il titolo non ha nessuna attinenza con nessun momento della storia e non se ne capisce il senso). Sa di volere che i propri personaggi si travestano, sa di volerli alle terme, di volerli far cantare e di fargli incontrare delle donne o di metterli su un minivan da figli dei fiori. Poco male se tutto questo non costruisce nulla e ogni svolta si esaurisce con il suo, già scarno, effetto immediato.

Quest’avventura molto romanocentrica narrata con voce fuoricampo da Primo Reggiani, in un tono sognante e tenero degno di Immaturi (1 e 2!), sembra strappata dal cinema anni ‘80 dei Vanzina. Italiani all’estero alle prese con il problema stesso di essere italiani all’estero (ma in fondo anche con i suoi inattesi pregi), un’avventura in cui i toni si mescolano con una brutalità selvaggia. C’è infatti quella stessa alternanza meccanica di gag e sentimenti ingenui, quella medesima goffa maniera di mettere una dopo l’altra scene di grandissimo divertimento in cui tutti i personaggi ridono e altre di grandissimo dramma in cui spunta l’onnipresente “malattia” (tanto generica e non specificata quanto letale), dei film più sentimentali dei Vanzina, senza però la capacità che avevano i fratelli di coinvolgere in una narrazione leggerissima con un tono da eterna favola.

Tra comparsate implausibili di calciatori italiani di un tempo per la più classica delle improvvisate partite di calcetto contro gli stranieri di turno, tra spagnole innamorate perdutamente degli italiani appena arrivati, bilanci di una vita, lezioni imparate e confessioni “inattese”, i 4 romanisti in cerca di biglietti per la partita riescono solo a mostrare se stessi e il “problema” che incarnano. Francesco Apolloni e la sua incapacità di prendere la vita sul serio (eccessivo nel suo essere eccessivo), Ricky Memphis e il problema del gioco d’azzardo, Primo Reggiani e l’insicurezza sentimentale. Solo Francesco Montanari, come sempre, sembra profondere un impegno superiore a tutti, anche al film stesso. La sua recitazione fisica ed elettrica anima infatti la scena migliore di tutto il film, ovvero il collage di riti e superstizioni che animano la sua vita da tifoso.
Un product placement invadente come pochi altri solleva da ogni preoccupazione sulle possibili sorti economiche della produzione.

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