Outlaw King - Il Re Fuorilegge, la recensione
Indeciso tra cinema d'autore e commerciale, Outlaw King alla fine non è nessuno dei due
Sono passati 20 anni dal film di Mel Gibson, ci sono stati Il Signore degli Anelli e Il Trono di Spade a ritoccare l’estetica di spade e cavalli, re e regine, evidentemente Outlaw King ne tiene conto per il suo misto di violenza e naturalismo, ma dimentica di ritagliarsi un po’ di personalità. Mckenzie davvero si inventa poco e suona sempre fuori posto. Divide rigidamente i suoi personaggi in buonissimi e cattivissimi, vuole assegnare colpe e non riesce a fondere l’impresa del re fuorilegge con una storia d’amore in cui Chris Pine è l’anello debole, quello incapace di andare oltre la propria barba, mentre Florence Pugh recita per tutti e due, una vera scoperta. Tra realtà storica e finzione melodrammatica Outlaw King non trova davvero mai un equilibrio soddisfacente, e a seconda dei momenti esagera da una parte o dell’altra: il re e la sua donna divisi dalla guerra grida cinema classico, come anche il villain con il complesso del padre così esplicito, invece l’incredibile lunghezza, la composizione delle inquadrature e il montaggio lasco dicono tutt’altro.
Ad ogni modo l’ironia più grande di Outlaw King - Il Re Fuorilegge è che con i suoi ampi scenari, i droni, le comparse, le vallate e le highlands, le gabbie sugli oceani e i costumi, una volta sarebbe stato l’orgoglio del cinema in sala, la potenza dell’immagine colossale e delle produzioni ambiziose, mentre ora deve ringraziare Netflix se raggiunge un pubblico senza dover andare in deroga a niente di tutto ciò.