Outcast - Il Reietto 1, la recensione

Il "signore degli zombie" Robert Kirkman si cimenta in un altro classico dell'horror: le possessioni demoniache. Con Outcast riuscirà a bissare il successo?

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Inutile negare l’evidenza: di fronte all’annuncio di una nuova serie firmata da Robert Kirkman e dichiaratamente a tema horror, la mente vola immediatamente a The Walking Dead e a fare un raffronto con l’opera più famosa e discussa dell’autore statunitense.

E sebbene sia ingiusto dover misurare Outcast, che ha diverse carte da giocare nella manica per farsi apprezzare come storia indipendente, in relazione a The Walking Dead, un raffronto iniziale tra le due serie può servire a fornire uno spunto di partenza per una riflessione autonoma sul primo numero di quella che si preannuncia potenzialmente come una serie molto interessante.

Se gli scenari della saga degli zombie spiccano per la loro folle maestosità, le tinte apocalittiche e le atmosfere futuribili e crepuscolari su scala mondiale, presentandoci un mondo stravolto, irriconoscibile e trasfigurato, Outcast, in modo quasi diametrale, ci presenta atmosfere, toni e ambientazioni saldamente immerse nella realtà. Quindi è inevitabile che a una prima lettura e a un primo impatto, le sensazioni non possano essere forti o immediate come la vertiginosa immersione forzata in un mondo da incubo che avvinghiava il lettore nelle prime pagine di The Walking Dead.

Ma attenzione: è solo un’impressione superficiale ed è solo il primissimo impatto. Quello che Kirkman fa nelle vicende di esordio di Outcast non è altro che chiamare in causa un’altra delle regole d’oro e delle tecniche delle storie horror, che ha visto in Stephen King uno dei suoi massimi fautori e che è anch’essa ormai talmente radicata da poter costituire un filone a sé stante, e cioè quella di far emergere l’orrore dal quotidiano, dal banale e dal comune. Niente mondi apocalittici, dimensioni surreali o scenari alieni nelle pagine di Outcast, bensì le atmosfere sonnolente di provincia del West Virginia. Ma come ben sa chi ha percorso le strade di Derry e degli altri paesini del Maine di King (ma anche chi si addentra negli orrori mensili di Dylan Dog), la sonnolenta provincia americana e l’orrore inaspettato sembrano fatti apposta per procedere a braccetto, ed è in questo letale ma inossidabile connubio che emerge una chiave di lettura intrigante per Outcast.

La sovrapposizione dell’orrore al “normale”, al comune e al provinciale è una tecnica narrativa già di per sé molto efficace, specialmente grazie alle ispiratissime matite di Paul Azaceta, in cui la semplicità e la pulizia del tratto vengono utilizzate in una vignetta per raffigurare un emporio o una messa domenicale dell’intorpidito paesino che fa da scena alla vicenda, e nella vignetta dopo ci trascinano, con la stessa pulizia e la stessa spietata nitidezza, nella camera da letto di un bambino posseduto dal demonio.

Ma la sovrapposizione di queste due realtà narrative e di questi due scenari visivi sono solo due dei primi e più superficiali esempi di come in Outcast tutto sia doppio.

Il tema centrale di questa serie è e sarà quello della possessione demoniaca, altro caposaldo della narrativa horror che da L’Esorcista in poi ha reclamato un abbondante filone letterario e multimediale. E già questa scelta è un’altra scelta che, proprio come nei casi già citati, torna a fare uso del tema del doppio: un’entità che si sovrappone a un’altra, un uomo che in realtà non è un uomo, uno spirito che possiede e un corpo che è posseduto.

È un gioco inquietante e interessante quello che Kirkman comincia a tessere con le sue possessioni demoniache inaspettate, perché dietro a tutti gli archetipi del tema immancabilmente riproposti, dalla ferocia inaspettata del bambino posseduto alla mite ma incrollabile determinazione del sacerdote esorcista, l’autore lascia intravedere ulteriori giochi di specchi e suggerisce potenziali capovolgimenti. Un caso esemplare al riguardo è la madre del protagonista, che soltanto nel corso della prima storia passa da vittima ignota e non vista di un destino crudele a incubo e tormentatrice dell’infanzia e del passato di Kyle Barnes, per poi rivelarsi come eroico e silenzioso baluardo che aveva tentato con tutte le forze di difendere il figlio dalle entità crudeli e soprannaturali che turbinano intorno a lui. Se nel corso della prima storia Kirkman è riuscito a sovvertire così radicalmente le aspettative di una situazione archetipica, viene da chiedersi cosa riuscirà a fare nei tempi più lunghi, quando sarà riuscito a costruire attorno alle vicende di Kyle un universo come si deve.

Ed è appunto Kyle Barnes, il solitario e devastato protagonista della storia, a dare il nome alla serie. Un Outcast, un reietto che ha avuto la vita devastata dalle forze demoniache che hanno divorato e distrutto ogni persona che gli fosse cara e vicina e lo hanno indotto a optare per una vita solitaria, degradata e disperata, isolandosi sia fisicamente che emotivamente da ogni attaccamento per non dover rivivere i dolori del passato. Facile quindi interpretare il titolo di Outcast come riferito a un Kyle Barnes che vive al di fuori delle convenzioni sociali e che è stato “esiliato” (o si è autoesiliato) dal “branco” dei suoi simili.

Eppure, anche in questo caso, Kirkman lascia trapelare che la verità potrebbe essere doppia e un’altra realtà parallela potrebbe sovrapporsi a quella più evidente. Perché se è vero che le forze dei demoni stuzzicano, provocano e tentano di trascinare Barnes verso una direzione ancora non meglio specificata ma sembrano molto interessate a lui, è forse troppo azzardato pensare che in un futuro più o meno lontano Barnes possa rivelare legami o discendenze demoniache a sua volta, e che Outcast sia da interpretarsi non tanto come un umano esiliato dagli altri bensì come un demone o una progenie demoniaca che ha voltato le spalle ai suoi simili e ora ne paga il caro prezzo?

Ipotesi, nulla di più, ma il semplice fatto che la storia le susciti è la migliore dimostrazione del suo potenziale. Perché è vero che letto per quello che è, il primo numero di Outcast potrebbe anche apparire semplicemente per un fumetto horror a tema demoniaco per certi versi anche troppo tradizionale, ricalcando molti luoghi comuni del genere e percorrendo binari già noti. Ma quei due o tre guizzi di sovvertimento e la promessa di qualcosa di ben più oscuro e inaspettato dietro a quello che si vede in superficie gli danno un valore aggiunto che fa la differenza e che lo rende un esperimento interessante da seguire e approfondire.

È naturalmente presto per dire se le promesse di originalità e di eccesso che sembra di cogliere saranno mantenute: sarà necessario seguire lo sviluppo della storia per esserne certi, ma del resto sarebbe anche ingiusto pretendere da un numero 1 di fornire delle risposte, quando invece il suo compito primario è proprio quello di sollevare domande.

Da questo punto di vista, Outcast 1 svolge molto bene il suo lavoro, attirando il lettore nel gorgo di caos e di mistero che divora la vita di Kyle Barnes e inducendolo a volerne sapere di più. Se è vero che un libro non si giudica dalla copertina, la copertina ha spesso il non facile ruolo di indurre il lettore a iniziare l’avventura. Ecco, se il numero 1 di Outcast è la “copertina” della nuova saga di Kirkman, il suo compito lo svolge più che egregiamente, accalappiando l’attenzione del lettore in una storia oscura e inquietante.

La partenza è buona: il tempo dirà se la storia nella sua interezza saprà risultare valida e memorabile. Ma un’occhiata al pedigree dell’autore e a quanto ha compiuto con le sue creazioni passate ci consentono di nutrire un buon grado di ottimismo.

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