Le otto montagne, la recensione | Cannes 75

Ibrido di culture diverse del cinema, Le otto montagne è un film italiano pensato da una coppia belga che sfodera una sensibilità spiazzante

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Le otto montagne, in concorso a Cannes

Che cosa rara un film italiano (una co-produzione sì ma a maggioranza italiana) che adatta un romanzo italiano, sceneggiato e diretto però da due autori stranieri, nello specifico belga, come Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, marito e moglie con radici europee e sensibilità americana nella messa in scena. Le otto montagne già produttivamente è quindi un ibrido creativo: storia italiana, svolgimento, idee e sensibilità profondamente europee che diventano un film girato con ambizioni da bromance americano. Tutto inusuale, una voce fuori campo quasi da Stand By Me (almeno nella prima parte in cui i due protagonisti sono bambini) e poi un uso delle musiche (e una selezione!) che non sarebbero mai venuto in mente ad un regista italiano, e ancora un modo di flirtare con il sentimentalismo, l’unione e l’ammirazione che a tratti fa quasi pensare ad esiti omosessuali. Non è questo il caso però, Le otto montagne non va a parare lì, l’amicizia virile la usa per raccontare personaggi e paesaggi.

Van Groeningen e Vandermeersch trovano il tono giusto da subito, fin dalla prima difficilissima parte, quella con i due bambini e il triangolo che instaurano con il padre di uno dei due (Filippo Timi, una volta tanto misuratissimo). Un rapporto che riesce a suonarci immediatamente intoccabile e particolare, chiunque si inserisca sembra rovinarlo (la prima rottura arriverà per l’esigenza di educare Bruno). Chiunque che non sia la montagna, l’unico posto in cui tutto questo ha un senso. Ovviamente questo è un film di spazi aperti innamoratissimo dei suoi paesaggi, ma ha anche una maniera di filmare quest’amore che non ci appartiene e nel quale Marinelli e Borghi si inseriscono benissimo con il loro modo di recitare naturalmente ruvido, esaltato, curato e accordatissimo alla messa in scena.

Invece che bruciare come una grande fiammata Le otto montagne arde lentamente, non ha fretta e una fiducia encomiabile nella propria capacità di attirare e incuriosire con la montagna come outsider di lusso in una relazione mai prevedibile ma sempre reale. Recitato in sottrazione il film sa commuovere anche con una telefonata intercontinentale in cui non vediamo bene il volto di nessuno dei due coinvolti, con una voce fuori campo o con un’inquadratura senza persone. Sempre emotivo, mai smielato.

Ma il vero passo strano che il film possiede gli viene da questa ambizione di usare la montagna come terzo incomodo, un mediatore tra personaggi che come un angelo custode li accompagna ovunque, specialmente quando sono soli (anche dall’altra parte del mondo). Così, colpiti quasi sempre a sorpresa, non è difficile innamorarsi delle singole situazioni, dei pasti frugali nell’erba o del lavoro di costruzione di una casa. Perché proprio come la montagna fa da intermediario tra i personaggi, anche con lo spettatore funziona da agevolatore. Stavolta il paesaggio non è il vero soggetto (come vuole la regola del cinema italiano) ma il mezzo, il catalizzatore di sentimenti ed emozioni, il feticcio o il campanello che solo presentandosi e comparendo li evoca e li richiama, fino a creare la consapevolezza che in quei posti non possa esistere altro, non si possa che provare quelle sensazioni.
Così alla fine, come avviene per i grandi film, Le otto montagne rischia anche di modificare in molti le sensazioni associate a quei veri paesaggi.

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