La grande forza di
Orphan Black, che qui recuperiamo con qualche mese di ritardo e che nel frattempo si è sedimentato nell'opinione comune come una delle più interessanti novità dell'anno, è il suo costante reggersi in equilibrio tra serietà e seriosità, tra una narrazione che fin dalle premesse pecca di inverosimiglianza e una scrittura che al tempo stesso riveste i propri personaggi ipercaratterizzati di una forza rara per un progetto simile. Ideata da
Graeme Menson e
John Fawcett, la serie trasmessa dalla
BBC America non inventa nulla, ma nemmeno si prende gioco dello spettatore con false piste e cali di ritmo. In appena dieci puntate la narrazione gioca sull'azione piuttosto che sull'attesa e le riflessioni, in un lento ma costante precipitare verso il finale scandito dai mille personaggi che hanno il volto della bravissima
Tatiana Maslany.
Il prologo è fulminante e emblematico. Annullando qualunque parentesi introduttiva e gettandoci nella mischia, ignari di tutto esattamente come la protagonista Sarah Manning, ci ritroviamo in una stazione ad assistere al suicidio di una donna uguale alla stessa Sarah. Di lì un furto d'identità spalancherà per la ragazza sbandata un mondo che fino a quel momento le era stato risparmiato, lasciandola nell'ignoranza e in una relativa serenità. Tante, troppe nuove persone entreranno nella vita di Sarah, ognuna di esse identica nell'aspetto, ma completamente opposta nel carattere. Si potrebbe pensare in primo momento che il nucleo della storia sia la ricerca della verità, ma ciò è vero solo in parte.
Come detto,
Orphan Black non vive di attese e brusche frenate, ma di costanti accelerazioni. È un
thriller fantascientifico nel quale il tema della
clonazione non è il punto d'arrivo, ma quello di partenza. Ed è una scelta che si rivela vincente nella misura in cui, impegnati come siamo a conoscere i vari cloni, dall'apparentemente pacata Alison, alla nerd Cosima, alla killer Helena, non ci curiamo delle svolte troppo casuali, delle
forzate coincidenze – come quella che dà il via a tutto – di alcune reazioni poco verosimili e di altre varie ingenuità sparse nell'arco delle puntate. Merito di una scrittura consapevole dei limiti della propria storia e che saggiamente decide di lasciarli all'ombra, non perdendosi in un
loop procedurale (ad un certo punto sembra che tutto si incentrerà su Sarah che cerca di essere credibile nella nuova identità assunta), ma nemmeno navigando a vista, sostenendo l'avanzare della trama con un cerchio di personaggi e situazioni che si allarga sempre più e arricchendo il tutto con svolte e rivelazioni varie.
Impossibile poi non sottolineare la bravura di Tatiana Maslany. L'interazione tra i personaggi da lei interpretati funziona perfettamente, reggendo in ogni istante la finzione scenica sulla quale si basa gran parte dei momenti più importanti della serie e addirittura facendoci dimenticare come si tratti della stessa attrice. Anche in questo caso un intelligente lavoro di costruzione di caratteri alle spalle, saggiamente estremizzati e ipercaricati per accentuare le differenze. Francamente parlare di tematiche per una serie come questa è un'esagerazione: diciamo solo che è interessante notare come - la serie ce lo dice espressamente, addirittura mostrandoci diversi orientamenti sessuali tra i cloni – la componente ambientale abbia avuto un ruolo fondamentale nel diversificare le varie versioni di Sarah, piuttosto che quella genetica.
Orphan Black non è il miracolo televisivo dell'anno, ma per essere una delle prime produzioni originali del network ha decisamente vinto la propria scommessa. Denso di avvenimenti, ricco di personaggi, mai noioso, ma soprattutto consapevole dei propri limiti e difetti e del modo di non farli pesare troppo sul racconto. Da recuperare, in attesa della seconda stagione che debutterà il prossimo 19 aprile.