Orion e il Buio, la recensione

L'incontro fra Charlie Kaufman e DreamWorks convince, accontentando sia i fan del primo sia chi cerca "solo" un film per ragazzi intelligente

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La recensione di Orion e il Buio, il nuovo film diretto da Sean Charmatz, in streaming su Netflix dal 2 febbraio.

“Ragazzo, o sei estremamente disturbato o estremamente creativo” si dice a un certo punto in Orion e il buio. È praticamente la firma di Charlie Kaufman, in un film che malgrado il cambio di target porta tutti i segni del suo cinema. Non è la prima volta che Kaufman si cimenta nell’animazione. Ma Anomalisa (2015) era qualcosa di completamente diverso, un’operazione arthouse per soli adulti che tornava alle marionette kabuki di Essere John Malkovich (1999). Con Orion si parla invece di DreamWorks, e di una favola di formazione (dall’omonimo libro per l’infanzia di Emma Yarlett) pensata per unpubblico decisamente più generalista. La sfida vinta da Kaufman sta nel riuscire a non sacrificare nè il suo stile nè il divertimento, trovando un approccio pop ai suoi temi la cui energia nutre, anzichè soffocarlo, lo spessore filosofico.

In fondo è l’ennesimo problema di adaptation, tema che in Kaufman lega da sempre l’artistico e l’esistenziale. “Adattare” il libro di qualcun’altro, accettando di liberarsi del proprio solipsismo, corrisponde ad “adattarsi” in senso darwiniano; sopravvivere, incontrare la vita, uscire dalla prigione del proprio incessante monologo interiore. È quello che fa – ancora una volta – Kaufman, uscendo dalla sua comfort zone per confrontarsi con l’animazione per ragazzi. Ed è quello che fa il piccolo protagonista Orion (Jacob Tremblay), bambino terrorizzato da tutto, che una sera nella sua cameretta incontra il Buio (uno straordinario Paul Walter Hauser)e si fa condurre da lui in un viaggio incredibile alla scoperta della poesia della notte.

Su questa che è l’ossatura del libro di Yarlett, Kaufman interviene in due modi: da una parte facendo di Orionuna figura autobiografica di intellettuale nevrotico, paralizzato da un eccesso di riflessività che gli impedisce di agire e (postmodernamente) scrivere la propria storia. Dall’altra sottoponendo una lineare struttura da hero’s journey a un processo di moltiplicazione narrativa “a scatole cinesi”, rilanciando continuamente il punto di vista e l’identità del narratore(i). Anzichè lacerante come in altri suoi film, stavolta la scissione acquista un carattere liberatorio, da racconto interattivo che si costruisce attraverso le generazioni, le famiglie, le amicizie. L’ego geloso e ipertrofico del cinema kaufmaniano trova a sorpresa una dimensione sentimentale autentica, accettando di relativizzarsi e facendo pace coi suoi demoni in una forma che sta perfettamente dentro le logiche dell’animazione mainstream.

Non è casuale che questo avvenga in casa DreamWorks, da sempre il più apertamente “adulto” (che non vuol dire intelligente) dei grandi studi americani d’animazione. Da quando Shrek e Z la formica rompevano le convenzioni della fiaba disneyana a colpi di cinismo e citazioni postmoderne, fino alla lotta fra Natura e Modernità di Madagascar – tema veramente “kaufmaniano” - i semi di Orion non stanno solo nella testa di un grande sceneggiatore, ma in un percorso decennale che tante volte ha toccato temi simili da dentro le logiche del cinema pop, e a cui oggi si aggiunge un nuovo affascinante tassello.

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