Origin, la recensione | Festival di Venezia
Un documentario contrabbandato come film di finzione, Origin unisce malissimo le due forme ma ha una potenza intellettuale avvincente
La recensione di Origin, il film di Ava DuVernay, presentato in concorso alla mostra del cinema di Venezia
Questo primo dettaglio che spiazza innesca Origin. Quello che seguirà però non sarà propriamente un film di finzione quanto l’adattamento di un saggio (Deep South di Allison Davis e Burleigh B. Gardner, del 1941), coperto da una pretestuosa trama che puntella il percorso della protagonista intenta a scrivere un importante articolo che parte dalle tesi di quel libro e, dopo una ricerca sul campo, le divulga. L’idea è che sia sbagliato e fuorviante parlare di razzismo per descrivere la storia degli afroamericani dalla schiavitù a oggi e più corretto parlare di caste. Perché esattamente come gli ebrei nella Germania nazista o il sistema indiano, gli afroamericani sono stati sistemicamente trattati come una casta inferiore. Tutto Origin lo spiega, motiva e viaggia indietro nella storia o lungo il pianeta per spiegare come mai la tesi regga.
È anche abbastanza chiaro che l’aggiunta proprio posticcia di una parte di trama sia utile a dare al film una circolazione più ampia e una diffusione più facile di quella che potrebbe avere un documentario. Tuttavia solo sporadicamente le due parti si arricchiscono a vicenda. Avviene ad esempio quando Isabel si confronta con la madre, la quale alla rivendicazione dei diritti preferisce la prudenza, è docile con i bianchi perché sa cosa può succedere altrimenti (molto bello quando lei testa la cosa con un idraulico trumpiano). In quel momento ci sono realmente due tesi, entrambe ben spiegate con un dialogo di finzione, entrambe sensate, che iniziano un lavoro nella testa dello spettatore. Per il resto il film tenterà di creare un’empatia con la protagonista che non solo non riesce ma è proprio goffa e inutile.
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