Orange is the new black (prima stagione): la recensione

La recensione dello show di Netflix, un dramma carcerario al femminile che per certi versi ricorda OZ

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Dramma carcerario. Queste due parole, associate ad una serie televisiva, potrebbero far suonare più campanelli. Nel caso peggiore, quello di un certo show iniziato nel 2005 e, dopo una prima buona stagione, trascinato a forza per altri tre anni. Nel caso migliore, quello di un telefilm che prese il via nel lontano 1997, praticamente alla preistoria delle moderne serie tv, della qualità da cable network. Un'opera fondamentale, un vero spartiacque tra la televisione vista come la sorella non troppo sveglia del cinema, e la moderna serialità, che invece dà del filo da torcere al grande schermo. Quella serie si chiamava OZ, e non esiste un miglior complimento per Orange is the new black che quello di paragonarla al suo illustre predecessore.

Perché Netflix lo scorso anno è stata senza dubbio rappresentata da House of Cards, e certamente anche la quarta attesissima stagione di Arrested Development si è presa la sua dose di attenzioni, ma non c'è davvero motivo per non permettere alla serie ideata da Jenji Kohan di godersi il suo momento sotto i riflettori. Orange is the new black, dramma al femminile, con le sue storie, i suoi caratteri, il suo piccolo universo colorato dell'arancione delle tute carcerarie e del nero della commedia oscura con cui vengono narrate, è decisamente un progetto da riscoprire e da seguire.

"This isn't OZ". Sono esattamente queste le parole che la guardia Sam Healy (Michael J. Harney) rivolge alla protagonista Piper Chapman (Taylor Schilling) durante il loro primo incontro nel primo episodio. Netflix lo scorso anno è stato nell'autoconsapevolezza delle proprie idee, dei propri modelli di riferimento, e nella capacità di superarli e infrangere il muro invisibile che la separava dagli spettatori, un superamento che quindi non avviene solo attraverso un nuovo metodo di distribuzione delle serie tv, senza più l'attesa settimanale, ma anche tramite una scrittura (certo, coincidenze e collegamenti a posteriori) sempre più coraggiosa. È il Frank Underwood (Kevin Spacey) di House of Cards, che guarda dritto in camera e ci parla, incurante della situazione, è la metatelevisione caratteristica di Arrested Development, è un riferimento preciso che Orange is the new black ci lancia come avvertimento.

Oz era la genesi della HBO, e forse anche di un nuovo corso. Questo è un nuovo corso ancora, che inizia da qui e che, coincidenza o meno, passa ancora da un dramma carcerario. Ma Orange is the new black è davvero un dramma? Rispetto a OZ certamente di meno. È meno violento, meno "drammatico", si concede più spesso alla risata a denti stretti da black comedy, al godimento della trovata surreale, talmente fuoriposto pur nella sua drammaticità da scatenare l'effetto opposto e farci ridere, come quando la nostra protagonista Piper, in difficoltà nell'ambientarsi, commette una leggerezza imperdonabile. È il Tobias Beecher della nostra storia. Non è un caso che la sua vicenda, iniziata dopo il suo costituirsi per traffico di droga, si dipani attraverso lo smarrimento iniziale e ci racconti il suo ambientarsi con le altre prigioniere.

È a questo punto che la coralità della serie prende sempre più forma, legandosi alla struttura episodica e spaziando da una carcerata all'altra, senza perdere mai di vista il quadro generale ma andandoci di volta in volta a raccontare nuove storie. In OZ il legame, e unico momento di fuga dalla terribile realtà della prigione, era rappresentato dal personaggio di Augustus Hill, pronto anche lui a infrangere la quarta parete, dissociarsi dal proprio personaggio nella serie e raccontarci gli eventi da una prospettiva più sottile. In Orange is the new black una figura simile non esiste. E Piper in fondo non rinuncia mai completamente al suo ruolo di protagonista, e il suo continuo dialogare con l'esterno e con il fidanzato Larry (Jason Biggs), mantengono alta l'attenzione sul suo personaggio.

Se in OZ ogni personaggio gettato nella mischia veniva rapidamente assorbito dalle dinamiche di gruppo e dalle gang (irlandesi, siciliani, musulmani, "ariani"), qui si tende a mantenere una certa individualità. È bella a questo proposito l'anima "femminile" della storia. Dove nel carcere degli uomini l'unica complicità ammessa era quella legata al gruppo di appartenenza e alle sue caratteristiche, mentre per il resto era guerra di tutti contro tutti, qui c'è più spazio per una maggiore "umanità", per una maggiore e diversa "sensibilità" (termini rigorosamente tra virgolette e da prendere con le molle). Non si può raccontare la storia di ogni singola carcerata per motivi di spazio, ma si tratta di storie curate, ben raccontate, che si prendono il loro tempo e che prendono vita attraverso personaggi ben caratterizzati, sviluppati e interpretati.

Proprio questa fusione tra commedia e dramma potrebbe dare qualche fastidio a chi si aspettasse un prodotto più crudo e diretto. In realtà sono quasi sorprendenti, una volta vista la prima stagione, le polemiche e le discussioni scatenate dall'elemento del lesbismo nella serie. Non si tratta di troppe scene, e francamente né il modo in cui vengono mostrate né il modo in cui sono integrate con lo show lascia spazio a polemiche e discussioni che, da questo punto di vista, appaiono o sterili o davvero insensate. Orange is the new black nonostante tutto è innanzitutto uno show godibile e molto meno "grave" di altre produzioni attuali.

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