Orange is the new Black (seconda stagione): la recensione

Con un cast straordinario e una storia sempre più corale, Orange is the new Black è uno dei migliori show in tv

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Everything ends, Brook, even prison.

Perché Netflix non è solo House of Cards. Con la seconda stagione di Orange is the new Black (qui la recensione della prima stagione) il servizio streaming più popolare del momento ha dimostrato – confermato sarebbe più corretto dire – di avere più frecce al proprio arco e di poter differenziare la propria offerta originale anche al di là del thriller fantapolitico con Kevin Spacey. Il drama carcerario al femminile ideato da Jenji Kohan rinnova in parte se stesso, allarga la propria visione e diventa una serie ancora più corale rispetto allo scorso anno. A metà fra il rosa e il nero una tonalità di arancione, quella delle tute da carcerate, piccole formiche che cercano il proprio posto all'interno del penitenziario di Litchfield: ripicche, ricordi e rimpianti, filtrati attraverso l'ironia e il velo dei flashback, unico contatto con le identità passate.

Nella routine del carcere del Connecticut poco o nulla cambia. Il violento cliffhanger con cui si era conclusa la prima stagione viene gestito nel primo episodio con una veloce trasferta di Piper Chapman (Taylor Schilling) a Chicago. L'incontro fugace con l'amata/odiata Alex Vause (Laura Prepon) è il trampolino di lancio verso il ritorno a quella che, ad un certo punto della stagione, verrà definita "casa". E in concreto, tanto qui quanto nel resto della stagione, cambierà davvero poco. Ferite superficiali a parte, l'impatto della detenzione lavora sempre all'interno dei personaggi, ora più deboli, ora più forti, ora più incerti, ora più sicuri. Su tutto la sofferenza interiore, il senso di inadeguatezza, il distacco da ogni legame nel mondo e la disillusione nei confronti della possibilità di riscatto personale. Quello che rimane da conquistare, oltre alla propria vita, è allora un vago senso di equilibrio personale, un nuovo baricentro per queste donne per le quali il carcere diventa sia la causa che l'obiettivo del cambiamento.

Ci si adatta a nuovi schemi e a nuove vite. "Taking steps is easy, standing still is hard", ascoltiamo di volta in volta nella opening della serie. E questa contrapposizione tra l'esterno, che significa cambiamenti, e l'interno, che significa stasi, si rinnova episodio dopo episodio nel rimando tra flashback – che ci raccontano i retroscena della vita precedente di una carcerata – e avvenimenti dentro Litchfield. E sono belle storie quelle che di volta in volta Jenji e le sue colleghe – appunto in maggioranza donne – hanno ideato per le molte protagoniste. Belle non perché edificanti o dal lieto fine o particolarmente realistiche (tutt'altro), ma perché coinvolgenti, cariche di umanità, spesso più tese e tragiche degli eventi in carcere, capaci di arrivare immediatamente allo spettatore.

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Come afferma ad un certo punto un personaggio rivolgendosi a Piper: "Glad to see you evolving and getting past the whole 'I'm-the-star-of-my-own-movie-and-everyone-else's' complex". E così la serie, che in piena continuità con lo scorso anno si emancipa dalla visione di Piper, che in alcuni episodi nemmeno appare, per mettere sotto i riflettori anche le altre, e sempre di più. A tener banco durante la stagione sarà la lenta, ma inesorabile, faida interna tra il gruppo di Galina "Red" Reznikov (Kate Mulgrew), che lentamente riprende quota dopo la caduta del suo personaggio nel finale dello scorso anno, e la nuova arrivata Yvonne "Vee" Parker (Lorraine Toussaint), che getterà scompiglio negli equilibri della prigione. È nello sviluppo di questa storia che Orange is the new Black perde in certi momenti il contatto con la sua anima più "riflessiva" e si concede ad alcuni eccessi e cadute di stile. Alla fine Yvonne sarà un personaggio troppo strumentale ad alcune svolte, inserito ad hoc per creare un fronte da far evolvere nella storia.

Eppure la sua presenza è anche un mezzo per gettare nuova luce su altri personaggi. Su tutti Suzanne "Crazy Eyes" Warren (Uzo Aduba), ma anche Tasha "Taystee" Jefferson (Danielle Brooks) e Poussey Washington (Samira Wiley). Nel corso delle tredici puntante avremo anche il riscatto, a livello di scrittura del personaggio, di alcune figure come Lorna Morello (Yeal Stone) e Tiffany Doggett (Taryn Manning), molto più interessanti rispetto al primo anno, mentre è impossibile non citare l'arco narrativo di Rosa Cisneros (Barbara Rosenblat), al quale viene lasciata la chiusura stagionale con una soluzione tanto irrealistica quanto liberatoria e soddisfacente. Irrealistica perché Orange is the new Black lo è sempre stato nel presentarci situazioni e reazioni. Alle feroci soluzioni visive e narrative del brutale OZ, la serie di Netflix, così grottesca e cinica quando vuole esserlo, ha opposto una visione più leggera e umana. Rimane poco sensata l'idea di candidare la serie nella categoria comedy ai prossimi Emmy, ma non si può negare la grande ironia e voglia di non prendersi troppo sul serio che permea tutta la storia.

Risate, ironia, humour nerissimo, ma anche momenti drammatici e attimi di solitudine e insofferenza raccontati con intensità. Nei suoi momenti migliori, cioè quando non cede troppo a dinamiche classiche da scontro buoni/cattivi e quando non siamo impegnati a seguire le poco interessanti vicende esterne (l'arco narrativo di Larry Bloom è molto debole), Orange is the new Black rimane una serie unica in questo momento nel panorama televisivo. Uno show quasi interamente al femminile, con un cast corale straordinario e tra i migliori in tv (forse solo Mad Men ha una qualità generale così alta), equilibrato, ottimamente scritto e diretto, e soprattutto dotato di una forte identità.

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