Orange is the New Black (quinta stagione): la recensione

Orange is the New Black torna su Netflix con la quinta stagione: al centro rimane la rivolta delle detenute a Litchfield

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Il cuore delle vicende narrate in Orange is the New Black sono i cambiamenti. E questo, considerato che lo show si svolge in un’unica, immensa, ambientazione, vuole dire molto. Nel momento in cui vive ancorata nello spazio – salvo flashback – la serie di Jenji Kohan gioca su un’evoluzione che matura nel tempo e che deve, necessariamente, essere influenzata da altri fattori. Primo fra tutti il senso di comunità che si viene a creare tra le mura di Litchfield. Il contesto carcerario muta, si adatta, rispecchia i vari microcosmi, soprattutto etnici, delle detenute che vivono all’interno. Nel momento in cui viene a cadere una sovrastruttura di controllo, cosa accade a quell’equilibrio? La quinta stagione della serie di Netflix cerca di rispondere a quella domanda.

O meglio, è guidata dalla ricerca di questa. La quarta annata di Orange is the New Black si chiudeva sullo scoppio della rivolta, con l’immagine di Dayanira che puntava la pistola contro un agente mentre tutto intorno a lei un cerchio di detenute inneggiava al caos. La morte di Poussey era il fattore scatenante della rivolta, raccolta da tutte le altre, soprattutto dalle amiche della ragazza uccisa, come il segno di tempi che dovevano cambiare. La quinta stagione racconta, nei suoi soliti tredici episodi, quella rivolta. Non il prologo, non l’epilogo, ma il lungo intermezzo che si svolge nelle tre giornate in cui le detenute controllano il carcere, trattengono degli ostaggi, intavolano trattative con l’esterno per ottenere migliori condizioni e prospettive durante la detenzione.

Ciò su cui ha poggiato fortemente Orange is the New Black nelle stagioni precedenti, una volta accantonato il punto di vista principale di Piper, è la grande malleabilità del materiale. Si tratta di un drama carcerario, ma non lo è mai in senso stretto. Pur con tutte le restrizioni possibili e l’influenza che questo ha sulla trama, la serie assomiglia più a un drama normale ambientato, quasi per caso, in un carcere. Questo permette inserti drammatici talmente esagerati che normalmente striderebbero con il realismo dell’ambientazione, ma permette anche un sottotesto ironico, grottesco, quando non attimi di pura commedia veicolati dal comic relief di turno.

Litchfield è una città, con i suoi quartieri, i suoi controllori, le sue rivalità, le piccole storie d’amore e i traumi interiori che chiunque, carcerato o no, si porta dietro. E questo funziona, a volte meglio a volte peggio, ma in generale garantisce un certo ripagamento per lo spettatore che sa cosa sta guardando e vuole continuare a farlo perché ama i personaggi e vuole continuare a vederli interagire. Nei momenti migliori della quinta stagione questo aspetto rimane. Funziona bene tutto il gruppo di Taystee, impegnata nelle trattative, Cindy, Suzanne e Alison, principalmente perché legate alla morte di Poussey, che nella serie ricordiamo è un evento recentissimo.

In generale è difficile non seguire con affetto personaggi storici come Doggett, Carrie, Red, Nicky e le altre, tant’è che quando una delle detenute si cimenterà nell’imitazione di alcune di queste le riconosceremo dopo una frase. Orange is the New Black può ormai permettersi di giocare con il senso di familiarità e vicinanza a questi personaggi, a ciò che sono come individui e come gruppi, ed è facile rientrare in certe storie, considerato che l’intreccio soprattutto quest’anno è molto basilare. Per chi vorrà passare altre tredici ore in compagnia di queste detenute matte, pronte alla battuta, molto umane e fallibili, comunque il viaggio varrà il tempo speso.

Eppure, volendo tornare al discorso dei cambiamenti, questo è un Orange is the New Black che assomiglia fin troppo a se stesso, che cavalca quel senso di grottesco fino all’eccesso. Forse perché stavolta, con la storia della rivolta in diretta nazionale, il gioco dell’assurdo è troppo palese. Rimangono ostaggi ridicolizzati che si prestano al gioco, un intero episodio che gioca su un sottotesto horror che stona con tutto il resto, un altro che pone alcune detenute a confronto con una minaccia interna francamente troppo eccessiva. Gli stessi flashback ormai dicono poco, anche perché girano intorno a personaggi che conosciamo già da tempo.

Rimane un episodio finale molto buono nella sua coralità (quanto si può cambiare in appena tre giorni?), anche se veniamo congedati con un nuovo cliffhanger, decisamente meno soddisfacente di quello dello scorso anno.

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