Oppenheimer, la recensione
Christopher Nolan con Oppenheimer non rinuncia alla sua grandeur ma prende il gigantismo dei suoi mondi e lo racchiude dentro un singolo individuo
La recensione di Oppenheimer, al cinema dal 23 agosto
Alternando due linee temporali della vita di Oppenheimer (distinte visivamente dall’uso del bianco e nero e del colore come già faceva in Memento, il secondo film di Nolan), il film passa necessariamente in rassegna la biografia dell’uomo per poterci poi servire il conflitto e l’antagonista dopo un lungo tempo. A metà tra il biopic e un procedurale slow-burn, ci mostra l’intera vita del protagonista scegliendo due punti di svolta, il Trinity Test (la prima prova dell’atomica nel deserto di Los Alamos) del 1945 e l’udienza di sicurezza indetta dalla Commissione per l’Energia Atomica (AEC) nel 1954 dove Oppenheimer fu accusato di comunismo e quindi passibile di vedersi ritirato il nulla osta di sicurezza. In buona sostanza ripudiato dal Paese che aveva servito.
Oppenheimer di Christopher Nolan racconta l’uomo per parlarci del mondo che lo circonda: quello di ieri come quello di oggi, con pochissimo sensazionalismo estetico e il coraggio di puntare tutto (o quasi: due o tre scene iconicamente alla Nolan ci sono, ma si contano sulle dita di una mano) su dialoghi e attori, costruendo un gigantesco film di parole, idee e posizioni mutevoli che quando sembra stia per collassare in sé stesso raccoglie tutto il seminato e detona con un boato silenzioso. Ma altrettanto potente. E ci riesce anche grazie al sonoro, strumento essenziale per innescare una reazione a catena esperienziale e che è infatti determinante nelle due scene principali - non a caso, una incentrata sull’idea di tempo e l’altra sulla visione distopica.
Oppenheimer è un film che vive di retorica ma che non la predica. In un mondo dove il singolo pensa di valere, e dove invece il potere - uno oscuro e organizzato, quello politico, a prescindere dalla bandiera - controlla ogni cosa, per l’individuo è più difficile che mai leggere la realtà che lo circonda, mentre si perde dietro teorie e congetture. Questa è la tragedia di Oppenheimer, ma anche quella della nostra realtà. Christopher Nolan non ci chiede di interpretare l’uomo, né di mettere la scienza contro la politica: queste, ci dimostra, sono inestricabilmente collegate. Oppenheimer ci chiede di osservare il suo determinismo catastrofico, per poi lasciare a noi, persi come siamo nel mondo, la responsabilità di interpretarlo.
Cillian Murphy è un Oppenheimer memorabile. Iconico ma mai caricaturale (basta il cappello, anche la pipa è superflua), racchiude in un corpo fragile l’arroganza del fisico, nello sguardo gelido il magnetismo del carattere e nella sua parabola narrativa l’ingenuità di un cieco. Oppenheimer (il film) vive di parole e quindi recitazione, e da Robert Downey Jr a Matt Damon pullula di grandi attori e ottime performance anche nelle scene minori. Meno a fuoco è invece il ruolo della moglie Kitty (Emily Blunt).
Oppenheimer è certo un film che giganteggia così tanto per idee che rischia di accartocciarsi nella sua stessa verbosità (soprattutto nella prima parte) ma poi ritrova tutto il senso che aveva costruito, sigillando la maturazione ormai totale di un autore, Nolan, che il blockbuster sa ormai trovarlo anche nel minimalismo.
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