One Second, la recensione

Zhang Yimou è cambiato, ha lavorato con il regime e girato film diversi ma sotto non è mai cambiato, sotto batte ancora il regista di Non uno di meno

Critico e giornalista cinematografico


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One Second, la recensione

Il regista che ha esordito come direttore della fotografia, che era famoso per l’uso del colore rosso nei suoi primi film, che è stato (e può tornare in ogni momento) l’araldo del cinema di stato cinese ad altissimo budget con film dalla saturazione visiva magnificente e che ancora ha costruito uno dei suoi film più famosi (Non uno di meno, Leone d’oro a Venezia) su dei gessetti colorati, per il suo film più concentrato sul cinema sceglie la desaturazione. Non che il colore lo abbia dimenticato (ha fatto un remake folle di Sangue facile dei Coen ipercolorato) è in questa storia che non c’è, come del resto era assente in Vivere. Altro suo film che tocca da vicino la rivoluzione culturale, periodo effettivamente vissuto da Zhang Yimou con storie terribili di sofferenza e distacco che hanno segnato tutto il suo cinema.

Ed è stato allontanato dalla figlia anche il protagonista, un uomo che arriva in un villaggio in mezzo al deserto in cerca di una pizza. Una pizza di un notiziario in cui qualcuno gli ha detto che forse si vede sua figlia. Quella pizza è itinerante, viaggia assieme ad un film di propaganda e viene portata di città in città. Avvicinarla non è facile, anche perché c’è una ragazzina che vuole rubare della celluloide per farne un copri lampada come quello che ha rotto e che deve ripagare con soldi che non ha e che gli servono per aiutare il fratello piccolo.

Parte così con due esigenze intorno ad un medesimo oggetto, la pellicola, che regola le vite di tutti. È propaganda per i fuzionarietti di partito, è sollazzo per la gente, è sopravvivenza per la bambina, è veicolo d’amore per il protagonista. Come già era capitato nei suoi film (e come ruba dal neorealismo italiano) c’è un oggetto umile e misero da cui dipendono le vite delle persone, un oggetto che per qualcuno è tutto e per altri è niente. Aiutarsi a vicenda è impensabile, è una chimera e per questo ogni piccolo passo verso il mutuo soccorso, ogni gentilezza in questo clima di lupo mangia lupo, diventa un’impresa commovente. Ovviamente non è casuale che l’oggetto stavolta sia la pellicola in un film in cui questa è restaurata, messa a posto, venerata, considerata come oro e toccata con la delicatezza che solitamente si riserva ad un oggetto sacro. Molto di One Second esiste solo per poter riprendere pezzi di celluloide trattati con il rispetto abiti sacri, ammirati, curati e rispettati.

E poi ci sarà la proiezione. Tutto è abbastanza canonico, l’idea dietro è che mentre nel film di propaganda la popolazione locale vede riflessi sentimenti che ha ma che senza guardarli non capisce, così il padre cerca la figlia scrutando delle immagini e gli basta, gli basta vedere per capire e sentire di nuovo qualcosa. Non è di certo un film che vuole sorprendere One Second, anche nel suo finale (molto dedicato alla rivoluzione culturale), ma semmai uno che ricorda che regista incredibile di storie umili sia Zhang Yimou, che sensibilità abbia quando si tratta di maneggiare i sentimenti più semplici e farli esplodere con sobrietà. Che fenomenale narratore in grado di prendere anche una trama convenzionale, con idee riguardo il cinema molto convenzionali e conosciute, per farne qualcosa di realmente intimo. Lavorare sul melodramma (i rapporti padre-figlia, la memoria, la lontananza e alla fine il tempo che passa e le delusioni) con il più classico degli oggetti-MacGuffin e far sembrare che è la prima volta che avviene in un film. La capacità di rispolverare un classico senza farlo sembrare tale.
Molti registi con il tempo perdono forza, perdono la capacità di tenere duro su un set e perdono i muscoli che servono per dare forma ad un film. Zhang Yimou, nonostante le difficoltà e gli alti e bassi, no.

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