One Fast Move, la recensione

One Fast Move è un vero film di motori come ormai se ne vedono pochi, anche quando critica e decostruisce le convenzioni dal genere.

Condividi

La recensione di One Fast Move, il film con Eric Dane disponibile su Prime dall'8 agosto.

One Fast Move arriva in un'epoca in cui il genere a cui appartiene è abbastanza roba passata. Non che non esistano più film di motori, ma quelli che ci sono tendono quasi sempre all'irrealistico (Fast and Furious) o al product placement di lusso (Ford vs Ferrari). Difficile vedere un film che si accontenta di una semplice storia di competizione su strada, senza effetti speciali se non il brivido a misura d'uomo dell'asfalto di un circuito minore. Neanche One Fast Move lo è fino in fondo, anzi quella che tenta è quasi una sovversione del genere (o meglio dell'etica che lo accompagna). Ma sulla strada per arrivarci mostra di conoscerlo benissimo e di saperne maneggiare i meccanismi.

Partiamo da perchè è sovversivo: perchè ribalta i cliché di tanto cinema sportivo americano su cosa significhi essere uomo e padre, sulla trasmissione di valori e l'etica della competizione. In un genere spesso sciovinista, disposto a lasciare le donne in secondo piano e a considerarle un fardello, a perdonare con gli occhi lucidi figure paterne terribili "in nome dello sport", qui si fa il contrario. C'è un padre da incubo, interpretato da uno specialista in materia come Eric Dane (chi ha visto Euphoria sa di che parliamo). Vecchio pilota con problemi d'alcol, un giorno bussa alla sua porta il figlio che aveva abbandonato da piccolo (KJ Apa). Anche lui corre in moto, e vuole che il padre lo faccia diventare un pro.

A un certo punto diventa chiaro quale sia il conflitto al centro del film. Vincerà l'etica sportiva malata del padre, che (come gli eroi di Damien Chazelle) ha rinunciato a qualunque legame umano in nome del successo? Oppure il figlio - che intanto si è innamorato di una ragazza madre - gli mostrerà che è possibile un altro tipo di campione e di uomo? La finezza di One Fast Move sta nella scelta di ritardare il più possibile il prevedibile esplodere del conflitto fra i due, concentrando tutta la prima ora sulla passione comune per la corsa.

Cominciare con un'ora buona di "classico" cinema su ruote - corsa, vita di officina, migliorie al motore, altra corsa - è un antidoto fondamentale alla predicatorietà di certe decostruzioni politiche. Per minare i codici virili del genere bisogna mostrare di amarlo, di saperlo vivere da dentro più che giudicare da fuori (cioè dall'alto in basso). One Fast Move lo fa con grande trasporto: ci fa entrare nella testa di due malati di competizione, toccare con mano il fascino dello sport che praticano. Ci fa capire che è una cosa bella, degna di essere perseguita, ma anche la difficoltà di conciliarla con una vita normale, perché pericolosa e perché la ricerca di gloria può far perdere di vista le persone amate.

Così il personaggio di Dane non è una macchietta maschilista ma una persona credibile nella sua ossessione, e il figlio non è qualcosa di alieno a un cinema sportivo tough e passionale, ma piuttosto una sua modernizzazione, che parte dallo stesso fuoco competitivo rifiutandone le conclusioni disumane. I confronti finali fra i personaggi (che parlano poco, come si addice a un cinema tutto fatto di gesti e immagini) dicono tantissimo senza strafare, prima con un dialogo secco dove esplode la violenza latente, poi con un cenno d'intesa che una volta tanto non è costruzione di un'alibi ma - forse - il segno di una maturazione.. 

Continua a leggere su BadTaste