On The Job: The Missing 8, la recensione | Venezia 78
Un poliziesco che ragiona con la testa di un western e insegue un classicismo che ad Hollywood non c'è più ma è presente in On The Job: The Missing 8
“Hanno provato a seppellirci, non sapevano che siamo semi”. Con questa frase scritta su un cartello (la più bella di tutta la Mostra del cinema di Venezia) si apre On The Job: The Missing 8, sequel non sequel del film che Erik Matti fece nel 2013 (On The Job) in cui veniva mostrato il sistema mafioso di carcerati rilasciati il tempo necessario per commettere omicidi per conto di importanti figure politiche. Non troviamo i medesimi personaggi ma un’altra storia vera, quella della scomparsa di 8 persone e dell’indagine giornalistica per scoprire che fine avessero fatto.
Questa volta On The Job non è più un poliziesco dai mezzi minuscoli e la forza del movimento, l’energia cinetica data dal desiderio di Erik Matti di fare qualcosa di grande in un paese in cui pareva impossibile, stavolta ha il capitale dietro e la confezione è splendente. Il ritmo però non regge tutte le tre ore e mezza alla medesima maniera. È semmai la sua passione per l’uso della musica a tenerlo vivo e costituire l’elemento distintivo di un film in cui si fa waterboarding con Delilah di Tom Jones e in cui (come spesso avviene nei mafia movie asiatici) i boss devono saper cantare il karaoke per dimostrare la propria forza.
Sarebbe il cinema della Nuova Hollywood, tra Coppola (un montaggio alternato tra omicidi e cerimonia cita esplicitamente Il padrino) e i boss che ricevono mentre mangiano di Scorsese (per non dire dell’uso della musica), con anche alcuni ottimi momenti da Michael Mann (un inseguimento silenzioso nei campi di grano), tradotto però nella lingua delle immagini della Nuova Televisione.
Ed è anche piacevole, intelligente e ben fatto. Ma non devastante come amerebbe essere.
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