Un'ombra sulla verità, la recensione

Tutte le domande più giuste nel contenitore più sbagliato. Tutte le dinamiche più interessanti trattate con i toni più grossolani

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Un'ombra sulla verità, al cinema dal 31 agosto

Ecco un film che si fa tutte le domande giuste. E nel porsele inevitabilmente le pone anche a noi.

In un condominio borghese di Parigi una coppia vende la cantina ad un uomo, un professore che ne ha bisogno per allocare una serie di oggetti. Scopriranno ben presto che in realtà l’uomo intende viverci in quella cantina e che non è una persona qualunque ma è stato cacciato dalle scuole in cui insegnava per negazionismo. Complottista, estremista, razzista e veicolatore di tesi ciarlatane e fasulle, quell’uomo è tutto tranne che scemo però. Ora è lì, la cantina gli è stata venduta (da una coppia in cui lui è ebreo), e gli sforzi dei condomini di cacciarlo si scontrano con diversi dilemmi morali e pratici mentre lui sussurra paroline nelle orecchie di tutti. 

La sceneggiatura di Un'ombra sulla verità sembra centrare tutti gli interrogativi più interessanti. Da quanto siamo disposti a convivere con elementi che mirano alla sovversione, a chi sono i veri perseguitati nel momento in cui non accettiamo e facciamo la guerra a certe idee, quanta forza ha un dubbio instillato anche in menti allenate, fino ancora alla potenza del complottismo nei nostri anni, agli strumenti della propaganda di idee inaccettabili e all’atteggiamento che invece deve tenere chi si definisce democratico. Peccato che Philippe Le Guay (che oltre ad essere uno degli sceneggiatori è anche regista) con la messa in scena gradualmente slitti dal cinema di dialettica a quello a tinte forti, cioè da un territorio che padroneggia ad uno in cui è molto meno a suo agio.

Una pessima gestione del protagonista (Jeremie Renier), cioè dell’ebreo che vede tesi negazioniste spargersi intorno a lui a partire dalla sua ex cantina, fa sì che invece che empatizzare con lui ed essere partecipi dell’inferno in cui finisce, tendiamo a disprezzarne l’irrazionalità e l’incapacità. Più che come vittima ne esce come un uomo che in più momenti e con azioni stupide ha causato la situazione in cui è finito (non ha una sorte migliore Berenice Bejo, sua moglie, anche lei spesso fuori tono) e questo fa cadere molta dell’impalcatura intellettuale e del coinvolgimento iniziale. Senza contare che poi un finale infiammato, recitato con sguardi di follia, tradisce ogni promessa iniziale e sembra appartenere ad un altro film proprio.

Tuttavia non si può negare che l’immagine centrale di questo film sia perfetta, di quelle indimenticabili: il fatto cioè che il nostro rimosso (il passato fascista, le deportazioni delle nostre città) si agiti ancora sotto di noi, nelle cantine dei nostri palazzi, nelle parti buie e sporche, senza lavarsi e senza dignità ma comunque lì, in grado di parlare a tutti e sussurrare parole d’odio e dubbi nelle teste di tutti mentre non visto striscia al di sotto dei radar.

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