L'ombra di Caravaggio, la recensione

quanto bella nella sua realizzazione e nei suoi dettagli scenici viene schiacciata da tutto il resto.

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La recensione di L’ombra di Caravaggio, presentato alla Festa del Cinema di Roma e in uscita il 3 novembre al cinema

È normalissimo e anzi sano che il cinema italiano attinga al proprio patrimonio culturale per pensare al grande pubblico. La storia di Caravaggio è tra l’altro in sé incredibile, piena di potenziale cinematografico e narrativo. Michele Placido parte quindi da un’intenzione nobile e giusta: e difatti L’ombra di Caravaggio usa grandi talent (Riccardo Scamarcio, Louis Garrel, Micaela Ramazzotti, Isabelle Huppert), scenografie e costumi che danno lustro alle maestranze, e attinge a piene mani da location che urlano “Film Commission” da ogni poro (con tanto di indicazioni di luogo…)

Tutto molto giusto, sulla carta. Peccato però che L’ombra di Caravaggio non sappia come usare questi strumenti a sua disposizione, seguendo scolasticamente la sola cronologia storica senza tirarne fuori null’altro. Un film confusionario e annacquato nella scrittura e recitato con un’enfasi irreale da tutti i personaggi secondari.

Si parte in medias res, nella Napoli del 1609 quando il pittore Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio (Riccardo Scamarcio) è nascosto dalla nobile famiglia Colonna mentre attende la grazia papale per aver commesso un omicidio. La sua è una vita volta al vizio e le sue opere, per quanto riconosciute da molti come meravigliose, sono osteggiate dalla Chiesa di Roma perché blasfeme. Caravaggio usa infatti modelli presi dalla strada, prostitute e poveri che sulla tela diventano santi, arcangeli e la Madonna, interpretando il Vangelo secondo una sua personale lettura: il sacro e il divino sono nel popolo, non nella Chiesa. Una cosa evidentemente inaccettabile per la Chiesa.

Lo stratagemma usato dagli sceneggiatori (Placido, Fidel Signorile, Sandro Petraglia) è quella di usare un funzionario ecclesiastico (Louis Garrel) che indaghi sulla persona del Caravaggio per decidere se degno di grazia. E così, assieme a lui, tra racconti dei personaggi che diventano lunghe parentesi visive e salti nel presente, scopriamo meglio il pittore. L’ombra di Caravaggio ha però un evidente problema non solo di ritmo e intreccio - è tutto compresso, ammassato, confusionario - ma anche di scrittura dei dialoghi, veri e propri spiegoni dal lessico irreale dove, con un’enfasi teatrale, tutti si chiamano per nome e cognome, ripetono ciò che abbiamo appena visto su schermo, fanno uscite al limite del comico involontario. L’effetto posticcio si palesa in modo plateale con il personaggio di Isabelle Huppert, la cui recitazione viene stravolta da un doppiaggio italiano mal fatto, evidentemente irreale.

L’ombra di Caravaggio è un film dalla produzione plateale, abnorme e magniloquente che per quanto bella nella sua realizzazione e nei suoi dettagli scenici viene schiacciata da tutto il resto. Michele Placido salva il salvabile, crea delle buone dinamiche in scena (anche se esagera un tantino con i primi piani) ma anche il montaggio fa la sua parte in questa débacle, con un’effetto-accumulo laddove la semplicità, invece, sarebbe stata l’arma vincente.

Siete d’accordo con la nostra recensione di L'ombra di Caravaggio? Scrivetelo nei commenti!

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