Oltre il muro, la recensione
In un palazzo si svolge la più classica delle battaglie morali del cinema iraniano, solo che questa volta il regista è pronto a barare
La recensione di Oltre il muro, il film di Vahid Jalilvand presentato in concorso a Venezia 79
La storia parte benissimo, con un uomo che tenta il suicidio in casa, viene interrotto da qualcuno che bussa alla porta e si scopre rapidamente che c’è una donna ricercata nascosta nel loro palazzo e che l’uomo in questione sta diventando cieco (ormai quasi non vede più nulla). Mandate via le persone che bussavano alla porta, mezzo tramortito dal tentativo di suicidio, scoprirà che la donna in questione è entrata in casa sua. Entriamo così nella loro doppia tragedia e scopriamo che in un mondo di uomini fortissimi e autoritari che entrano ed escono da quella casa dando ordini e minacciando, la donna è finita dal più Davide di tutti, il meno potente, sempre tremante, pieno di sigarette che gli porta il suo medico. Un uomo che voleva farla finita e che invece trova nella causa di questa donna e della sua fuga una specie di ragione di vita.
Il grande svelamento finale sarà forse l’esito più deludente possibile ma al tempo stesso anche quello politicamente più infervorato (ed è chiaro quindi che a Jalilvand interessi più indignare che fare un grande film). E comunque alla fine non sarà per niente facile districare il groviglio di eventi e capire esattamente cosa sia successo dall’inizio alla fine.
Certo di nuovo vediamo questo Iran da cinema iraniano che sembra l’Italia della ricostruzione, un posto in apparenza simile agli altri ma nel quale un singolo errore può portare a conseguenze allucinanti, in cui non c’è nessuna forma di comprensione da parte delle istituzioni e nel quale sembra che nessuno possa ricevere aiuti dagli altri. A differenza del cinema italiano, un briciolo di umanità in questi film si fa sempre strada, e questo gli dà un respiro a suo modo arioso e umano anche quando, come in questo caso, il film è decisamente fallito.