Old, la recensione

Con Old torna il lato oscuro di M. Night Shyamalan, quello dei film implausibili con spiegazioni assurde che innervosiscono più che appassionare

Critico e giornalista cinematografico


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Old
The Visit era stato il ritorno del primo M. Night Shyamalan, concreto, secco e asciuttissimo, puro talento. Split e Glass hanno riportato in sala lo Shyamalan al servizio della storia. Adesso Old rassicura tutti, lo Shyamalan oscuro, quello dei film assurdi, delle premesse intriganti e svolgimenti senza senso che giungono a finali deliranti (quello di ...E venne il giorno, per intendersi) non se n’è mai andato ed è di nuovo qui.

La premessa di Old che viene spoilerata già dal trailer è che i protagonisti finiscono su una spiaggia in cui il tempo passa velocissimo. I bambini crescono in un attimo, gli anziani muoiono, gli adulti invecchiano e nessuno riesce ad andarsene. Tutto il film è uno showcase di conseguenze, implicazioni e reazioni ad una simile premessa fino a che nel finale viene chiuso l’intreccio e arrivano le risposte. Risposte disarmanti come solo Shyamalan sa concepirne.

La sorpresa è che Old gioca anche abbastanza poco con la suspense e si ritaglia solo un piccolo momento di orrore, quasi separato dal resto del film. La concentrazione è sul mistero e le sue implicazioni, o per meglio dire sulla sperimentazione di alcuni movimenti combinati di macchina usati per confondere. Il film abusa di un originale miscuglio tra zoom in avanti e movimento vorticoso, una soluzione che vuole essere fastidiosa e ci riesce. È terribile. Poi abusa delle panoramiche a 360° con le quali cerca di cambiare la maniera in cui il linguaggio filmico racconta il passare del tempo. E se non altro questa seconda soluzione funziona, cioè quel movimento fornisce come l’idea che il passare di poco tempo corrisponda in realtà al passare di molto tempo.

Sono molte le piccole grandi sperimentazioni tecniche in Old. Ad esempio quando i protagonisti arrivano alla spiaggia alla consueta colonna sonora viene aggiunto un ticchettio di orologio che sembra uscire dalla colonna audio di un film di Christopher Nolan. Shyamalan insomma si complica la vita su una storia che di suo sarebbe molto semplice, si inventa tutte le possibili soluzioni per non inquadrare i bambini mentre crescono, almeno fino a che non hanno raggiunto l’età buona per cambiare attore o attrice.

Insomma come al solito davvero non è la messa in scena il problema. Quella semmai è l’unica salvezza. È la scrittura il dramma, affidata ancora una volta a Shyamalan, a partire dalla graphic novel omonima di Lévy e Peeters. Non appena il film dovrebbe appoggiarsi ad un buon copione, ad esempio per raccontare le conseguenze psicologiche sui bambini della loro crescita immediata, crolla definitivamente. Trionfa con l’azione, con i coltelli nascosti e tirati fuori o le operazioni condotte sulla sabbia, ma fatica quando c’è da tirare le somme dei rapporti nella famiglia protagonista.

Per entrare davvero nel film bisognerebbe condividere l’idea di cinema di Shyamalan al 100%, quell’idea per la quale la plausibilità non conta assolutamente niente e non c’è nemmeno bisogno di fingere che conti. Si può stare per tantissimo tempo sott’acqua senza nemmeno avere timore di finire l’ossigeno nei polmoni e si possono prendere decisioni impensabili di continuo. Conta solo la messa in scena, il meccanismo. Ma stavolta, senza suspense, senza tensione e senza troppa azione il film proprio non regge.

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