Old Henry, la recensione | Venezia 78
Old Henry di Potsy Ponciroli funziona per ritmo ed atmosfera ma non riesce a portare a compimento la sua decostruzione della leggenda nel western
È forse molto più esaltante l’intento che il risultato in Old Henry, il western scritto e diretto da Potsy Ponciroli e con protagonista un ottimo Tim Blake Nelson. Old Henry vuole decostruire la leggenda e il mito del grande pistolero per sottolineare la fragilità umana dei grandi eroi del passato: quello che ottiene è complessivamente un buon film ma la sua atmosfera crepuscolare e la sua malinconia non bastano per concludere con forza e originalità un discorso sul passato del western che molti autori prima avevano già fatto in modo decisamente più incisivo.
Old Henry è un gioco di attese, sospetti e rivelazioni ambientato quasi interamente nella casa del protagonista o nei suoi pressi. Una dimensione strana per il western e che Ponciroli (che non brilla qui nei dialoghi o nella costruzione narrativa) fatica a gestire nei suoi spazi limitati, non avendo né personaggi con personalità forti su cui concentrarsi né un intreccio particolarmente attraente da cui aspettarsi colpi di scena. Il film in questo senso è, purtroppo, piuttosto ripetitivo o prevedibile.
Nonostante ciò Old Henry è comunque capace di attrarre lo sguardo e l’attenzione dello spettatore, ed è un merito che si assume quasi totalmente su di sé Tim Blake Nelson. La sua faccia rovinata, il suo accento e la sua fisicità goffa ed imbruttita dal tempo rendono perfettamente l’idea del personaggio, come anche Stephen Dorff riesce a dare un notevole spessore al suo personaggio solamente per come interpreta le sue seppur scarne battute.
Old Henry è allora un film che si basa tutto sulla forza attoriale, sul ritmo e sulle atmosfere ma che, una volta che bisogna fare i conti con le idee, fa fatica a portare a compimento un discorso più complesso.
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