Oceania, la recensione

Un ritorno alle convenzioni del passato ammanta di una patina di classico la sottile rivoluzione Disney che Oceania in realtà porta avanti

Critico e giornalista cinematografico


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Quattro registi e otto sceneggiatori per Oceania e un po’ si sente. Abituati a standard altissimi dagli ultimi lavori del post-Pixar, stavolta rimane la sensazione di un film per alcuni versi più convenzionale, privo di quella precisione di scrittura in cui ogni singolo elemento pare fondamentale (qui il pollo strabico non è ben chiaro a cosa serva) in una struttura impeccabile e rapida che non perde mai per strada nessuna possibilità per mettere in scena qualcosa di originale. Oceania viene dal passato della Disney e si vede sia nel bene che nel male, del resto è diretto principalmente da due eroi della vecchia scuola, Ron Clements e John Musker (La Sirenetta e Aladdin per dirne solo due). Eppure non si può non apprezzare come lo stesso questo film appartenga intimamente al nuovo corso dello studio.

La principessa Vaiana (non Moana, mi raccomando…), che in realtà non è proprio una principessa ma come fa notare Maui in uno slancio di metacinema va in giro con un animale e un bell’abito quindi è una principessa, sta stretta nell’isola in cui suo padre la vuole tenere, vorrebbe esplorare l’Oceano. Jasmine, Mulan, Ariel, Rapunzel ma anche la coniglietta di Zootropolis, e ora Vaiana, sono tutti esempi di personaggi femminili più o meno protagonisti di classici Disney ai quali il proprio mondo va stretto, spesso reali (ma non sempre) e ancora più spesso abitanti di un luogo esotico, sono animate dal desiderio di conoscere, di avere di più di quel che hanno (che poi non è mai poco ma si sa che i beni materiali non danno la felicità). Quello che inseguono in realtà non è mai un altro luogo ma l’emancipazione, una volta non la trovavano davvero (Ariel, Mulan e Jasmine passano solo da un uomo vecchio ad uno più giovane), ora invece le cose sono diverse.

Nonostante la sua patina usuale, Oceania è un passo in avanti non da poco per la Disney

Vaiana grazie a un’altra donna scopre di essere stata prescelta dall’Oceano in persona per recuperare un oggetto magico, un pretesto narrativo per farla partire, assieme a un semidio caduto in disgrazia per riportare la vita nella sua comunità. Il punto è il viaggio, spostarsi e vivere avventure in questo film Disney che dismette il fervente femminismo che aveva animato i precedenti ma non la voglia di rivedere molte idee preconcette. Nonostante la sua patina usuale, Oceania è un passo in avanti non da poco per la Disney. Vaiana non ha una storia d’amore, è indipendente non solo dal padre ma anche (come personaggio) da una love story e può, come era stato consentito solo agli eroi maschi, vivere un’avventura per sé e basta. In più, nonostante la gentilezza generale e il trionfo d’amore familiare, quella che compie è a tutti gli effetti una rivoluzione politica. Vaiana cambia il proprio regno e con un’immagine molto riuscita là dove i suoi antenati ponevano pietre piatte una sopra l’altra, mostrandosi in continuità con il passato, lei pone una conchiglia sopra la quale non potrà andare nient’altro, perché ha modificato la vera natura della vita sociale del proprio popolo contro il volere dei precedenti regnanti.

La cosa migliore poi è che arrivare a questo non si rinunci alle conquiste delle eroine che prima di Vaiana hanno lottato per un cambiamento in Rapunzel o Frozen, così alla fine la vittoria sulla minaccia non arriverà grazie all’azione (come vorrebbe Maui, il maschio irruento e spaccone) ma sostituendo la lotta alla comprensione, con un colpo che non è di violenza ma di relazione.

Non mancano soluzioni un po’ rubate in giro (il “mostro” avido d’oro e vanitoso a cui rubare qualcosa che sta chiuso in una montagna è preso da Lo Hobbit) ma Oceania ha talmente tanto una capacità di calamitare con l’impianto visivo che gli si perdona volentieri tutto, ipnotizzati dalle sue acque limpide (l’Oceano è animato come si sarebbe fatto negli anni ‘50 in un corto con Pippo ma ha una consistenza e una trasparenza che fino a ieri erano un miraggio per l’animazione digitale) o dalla texture della pelle dei protagonisti e da una ricchezza espressiva che fino a 4 anni fa pensavamo di poter attribuire solo alla Pixar.

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