Occupied City, la recensione
Steve McQueen fa una mossa da Wiseman ma ci aggiunge un doppio livello, Occupied City purtroppo non sempre funziona
La recensione di Occupied City, il documentario di Steve McQueen presentato al Festival di Cannes
Dalle immagini delle 4 ore di Occupied City la grande città appare come una piccola comunità, tranquilla e gentile. È tuttavia solo metà del documentario perché la voce fuori campo dice altro. Su quel tappeto di immagini e per ognuno dei luoghi ripresi, viene indicata la strada e il civico e raccontato cosa accadde lì durante gli anni di occupazione nazista, quando la morte e la paura erano ovunque. Storie di ribelli, collaborazionisti, famiglie ebree nascoste, ufficiali, combattenti per la libertà, stamperie, riviste di resistenza e famiglie terrorizzate. Tutta materia terribile di cui tuttavia non sembra esserci nessuna traccia oggi, nelle immagini. Quel contrasto lì tra ciò che si sente e ciò che si vede è il punto di tutto e attraverso McQueen stimola connessioni nella testa di ogni spettatore.
È difficile vedere in immagini così solari, nel benessere ripreso, nelle arti, nelle scienze, negli edifici che promuovono politiche sociali, nelle feste in piazza e nelle discoteche (unici sparuti momenti in cui sembra rompere l’estetica da Wiseman e propriamente “mettere in scena” ciò che riprende, con piccoli piani sequenza e ritocchi all’immagine) qualcosa di negativo. C’è un ottimismo potentissimo nelle immagini che schiaccia il terrore e il sadismo dei racconti degli anni di occupazione. Per quanto la voce ci possa ricordare ciò che è stato, lo sguardo impone la sua legge, le immagini vincono sempre e ciò che appare ha molto più da dire rispetto ai fatti.