Occupied City, la recensione

Steve McQueen fa una mossa da Wiseman ma ci aggiunge un doppio livello, Occupied City purtroppo non sempre funziona

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Occupied City, il documentario di Steve McQueen presentato al Festival di Cannes

L’impostazione visiva è quella di Frederick Wiseman, non ci sono dubbi. Per il suo documentario Occupied City Steve McQueen sceglie quello stile fatto di osservazione di dinamiche ordinarie attraverso inquadrature di pochi secondi apparentemente naturali e invisibili (in realtà molto meticolosamente preparate e montate), che riprendono singoli individui, azioni o luoghi, come elementi capaci di creare insieme un sistema più grande. Per Wiseman il soggetto, in definitiva, è sempre il lavoro, ovvero come tutti noi insieme creiamo o manteniamo cose straordinarie grazie ad un insieme continuo di conversazioni collettive e piccole azioni tutte fondamentali. Per Steve McQueen invece il vero soggetto di questa serie di immagini documentarie è la pacifica e placida quotidianità di Amsterdam contrapposta al suo passato.

Dalle immagini delle 4 ore di Occupied City la grande città appare come una piccola comunità, tranquilla e gentile. È tuttavia solo metà del documentario perché la voce fuori campo dice altro. Su quel tappeto di immagini e per ognuno dei luoghi ripresi, viene indicata la strada e il civico e raccontato cosa accadde lì durante gli anni di occupazione nazista, quando la morte e la paura erano ovunque. Storie di ribelli, collaborazionisti, famiglie ebree nascoste, ufficiali, combattenti per la libertà, stamperie, riviste di resistenza e famiglie terrorizzate. Tutta materia terribile di cui tuttavia non sembra esserci nessuna traccia oggi, nelle immagini. Quel contrasto lì tra ciò che si sente e ciò che si vede è il punto di tutto e attraverso McQueen stimola connessioni nella testa di ogni spettatore.

Ancora più in profondità, alla ricerca di ulteriori spunti, McQueen ha girato le sue immagini nei mesi di pandemia, tra lockdown, vaccinazioni, distanziamento sociale, mascherine e tentativi di tornare alla normalità. Il suo giudizio sulla storia, sulla città oggi e sul parallelo tra la Amsterdam occupata dai nazisti e quella dei tempi di Covid non c’è, l’abilità sta tutta nel creare le associazioni cercando di indirizzare il meno possibile gli spettatori. Quello che emerge è una strana forma di eterna rigenerazione, l’impressione che nonostante tutto quello che possa accadere a quella città, a quelle persone, a quel popolo, poi Amsterdam possa sempre ripartire, dimenticare e ricostruire, superare i traumi e ripopolarsi. Dei nazisti e di quelle tragedie non c’è traccia, il distanziamento o i lockdown sembrano non influire.

È difficile vedere in immagini così solari, nel benessere ripreso, nelle arti, nelle scienze, negli edifici che promuovono politiche sociali, nelle feste in piazza e nelle discoteche (unici sparuti momenti in cui sembra rompere l’estetica da Wiseman e propriamente “mettere in scena” ciò che riprende, con piccoli piani sequenza e ritocchi all’immagine) qualcosa di negativo. C’è un ottimismo potentissimo nelle immagini che schiaccia il terrore e il sadismo dei racconti degli anni di occupazione. Per quanto la voce ci possa ricordare ciò che è stato, lo sguardo impone la sua legge, le immagini vincono sempre e ciò che appare ha molto più da dire rispetto ai fatti.

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