Occhiali neri, la recensione

Avvicinarsi davvero a Occhiali neri è possibile solo con gli occhi dell'amore, quelli che ti fanno dimenticare i molti difetti e concentrare solo sul meglio

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Occhiali neri, il film di Dario Argento nelle sale dal 24 febbraio

È un film sghembo Occhiali neri e questo è il suo elemento di fascino maggiore. Se si ha la voglia di farsi strada in una selva di problemi, se si vuole saltare gli steccati di una recitazione non solo approssimativa ma anche terribilmente ripetitiva (e no, Ilenia Pastorelli non aiuta), se si vuole guadare il fiume in piena di un ritmo altalenante e se si è disposti farsi bagnare da una pioggia di buone idee sfruttate malissimo, ci si trova di fronte un film nella sua essenza sorprendente e nella sua scrittura accattivante. Certo è necessario arrivare con gli occhi dell’amore, quelli che impediscono di innervosirsi quando ad esempio il killer è mostrato già a metà film senza una chiara ragione o un vantaggio per la storia o la tensione, se non l’afflosciarne il potenziale spaventoso, e dall’altro lato consentono di focalizzarsi solo sui pregi. Se non ci si approccia così Occhiali neri è un film massacrante.

La prima sorpresa per chi viene da Giallo, La terza madre o da Dracula 3D (gli ultimi film di Argento) è che questo è un film fotografato con gusto da Matteo Cocco, non solo per scelte cromatiche sfumate ma anche per immagini composte con un senso. Ed è anche montato con il ritmo giusto e qualche idea accattivante (cosa non semplice visto il girato) da Flora Volpeliere. Cocco viene da film come Volevo nascondermi o Sulla mia pelle, Flora Volpeliere da I miserabili di Ladj Ly. Sono due ottimi esempi di un impianto produttivo di livello su cui poi spicca Sergio Stivaletti e la sua bottega. Occhiali neri non è un film malprodotto (dietro addirittura ci sono i francesi di Wild Bunch e Sky), una volta tanto, e questo mette in risalto le idee migliori di una sceneggiatura in realtà risalente al 2002.

In questa storia tutta fondata sul vedere, in cui un personaggio che diventerà cieco per un incidente d’auto ha un’epifania all’inizio, in Smart, durante un’eclisse, come se la sua vita fosse condannata a essere invasa dal buio (il momento migliore del film in cui tutto deve accadere e il sole oscurato porta con sé presagi primitivi), a fronte di una prima parte molto quieta e impostata, ce n’è una seconda sbilanciatissima, una fuga nel buio (per la protagonista) tutta di notte nei boschi vicino Roma. È una strana forma di horror senza troppo orrore (Matteo Cocco lavora bene ma davvero per rendere quei luoghi spaventosi serviva proprio tutta un’altra impostazione), un thriller affossato da dialoghi ripetitivi che però ha la buona intuizione di far vagare nell’oscurità due personaggi sbilanciati (l’unico a cui lei, una escort, può appigliarsi è un bambino, inutile), in mezzo agli animali, con un crescente senso epidermico di esposizione al pericolo.

Il resto ce lo mette il team di Sergio Stivaletti, e Occhiali neri non se lo fa chiedere due volte di poter indugiare su sangue, arti mozzati e gore spintissimo. Stivaletti consente alla videocamera di non distogliere mai lo sguardo né di nascondere, il trucco è così perfetto che è possibile mostrare tutto a pieno, un’orgia di visibile in un film su una donna il cui lavoro è essere guardata che inizia una nuova vita non potendo più vedere. Le carte in mano insomma Occhiali neri davvero le ha tutte, e ogni tanto centra delle affascinanti stranezze (la maniera in cui arriva il cane nel finale). E anche se non riesce a giocarle tutte come andrebbero giocate va bene lo stesso. Adagiato sul fondale del film si vede ancora l’Argento migliore.

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