Gli occhi del diavolo, la recensione

Inserendo nel filone sull'esorcismo una storia di rivendicazione femminile, Gli occhi del diavolo fallisce sotto tutti i punti di vista

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La nostra recensione de Gli occhi del diavolo, al cinema dal 16 marzo e già disponibile in home video e in digitale

Il fardello che grava sulla maggior parte dei film a tema esorcismo è quello di discendere, e inevitabilmente rifarsi, ad un modello, il capolavoro di William Friedkin del 1973, in fondo inarrivabile. Se dunque approcciarsi al filone è sempre un azzardo, il regista Daniel Stamm, con L'ultimo esorcismo, nel 2010 aveva quantomeno cercato un'angolazione differente, ibridandolo col mockumentary. Con questo Gli occhi del diavolo, il tentativo è invece di mischiarlo con le tendenze narrative più in voga dell'horror, ovvero femminismo e maternità. Con esiti però neanche lontanamente paragonabili.

Alla luce dell'aumento di casi di possessione demoniaca, il Vaticano decide di aprire segretamente delle scuole di esorcismo in tutto il mondo, per formare i propri sacerdoti. In quella di Boston, lavora come infermiera la venticinquenne suor Ann (Jacqueline Byers), desiderosa di mettersi alla prova in questo campo, da sempre riservato ai soli uomini. Un professore decide però di assecondarla e permetterle di assistere alle lezioni, dandole la possibilità di mettersi alla prova. L'occasione giusta è una piccola bambina a cui la giovane donna si è molto legata, che presto si scopre posseduta da una potente forza demoniaca.

Che a Gli occhi del diavolo interessi raccontare un tema forte, la rivendicazione femminile in un contesto strettamente patriarcale, lo rendono chiaro già i suoi assunti di partenza. E non lo fa che ribadirlo l'intreccio, che si muove infatti sulle classiche coordinate della lotta dal basso contro i poteri forti (addirittura secolari, in questo caso) interessati a mantenere lo status quo. Aggiungiamoci che la protagonista ha alle spalle un passato angoscioso (la madre, essa stessa posseduta dal demonio) da cui deriva la sua ricerca di un approccio empatico e umano con la bambina: blandamente, anche la casella del tema "maternità" è spuntata. Queste direttrici si vanno così a inserire in una sceneggiatura assai prevedibile, dove l'approdo è già ben evidente dalle sue premesse, senza alcuna deviazione o ribaltamento di prospettiva.

A non essere di adeguato supporto è inoltre la componente horror, in linea teorica quella principale, qui però completamente in secondo piano. Stamm ricorre infatti al consueto campionario del genere senza alcun tocco personale. Non basta infatti mostrare persone possedute che camminano sui muri, contorsioni del corpo e rantoli, per poter creare un'atmosfera inquietante. Servirebbero adeguate soluzioni di messa in scena, oltre ai facili jump scare, che qui sembrano però totalmente mancare al regista. In un film che si prende troppo sul serio, così l'effetto è più di parodia (involontaria), come quella in Facciamola finita.

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