November - I cinque giorni dopo il Bataclan, la recensione

Dentro November e dentro la sua grande maestria e precisione c'è il segreto dell'ideologia veicolata attraverso il cinema di genere

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di November, il film sui fatti del Bataclan, in sala dal 20 aprile

Negli ultimi anni i film sulle stragi o sugli attentati terroristici sono stati uno dei modi migliori di mettere il cinema al servizio di un’ideologia attraverso il genere. Che poi è in una parola la definizione del cinema americano. La ricostruzione fedele del lavoro di polizia, stato e forze dell’ordine in quelle situazioni e a seguito do quelle vere tragedie, ha messo insieme l’inoppugnabile verità delle vere procedure e dei veri fatti, con l’intoccabile esigenza spettacolare del cinema d’azione (cui questi film appartengono), creando una nuova dimensione tramite la quale raccontare un indefesso spirito nazionale e un'invincibile resistenza. Che poi è un altro modo per mettere da una parte i buoni e dall’altra una folla di nemici dall’altra, semplificando qualcosa di complesso.

Lo ha fatto benissimo Peter Berg in America (Boston: caccia all’uomo forse è l’esempio migliore) e adesso lo fa in Francia Cédric Jimenez (già regista del buon Bac Nord) con November, insieme a Jean Dujardin nel raccontare i fatti del Bataclan. Si parte dalla notte in questione, la cronaca dell’immediato vissuta attraverso gli agenti del nucleo anti terrorismo, e poi si va avanti per un pugno di giorni seguenti nel frenetico cercare, stanare e prendere i responsabili. È a tutti gli effetti la lettura del presente e di un fatto di cronaca attraverso la lente della guerra urbana. Ideologia veicolata dal cinema di genere che è possibile e accettabile solo in virtù di una fattura tecnica e una sobrietà di messa in scena (considerato il genere sempre!) realmente eccezionali.

È proprio questa maestria a veicolare una visione di mondo che è focalizzata e parte dall’ossessione. Gli agenti sono ossessionati dal prendere i colpevoli, sono determinati e dediti oltre l’umano, e questo dà la misura della cocenza e del conflitto. La scansione di November, con cartelli che indicano le giornate, contribuisce a sottolineare il poco tempo nel quale si svolge tutto, solo pochi giorni in cui le persone non dormono mai, non mangiano mai, non vedono i familiari (solo una telefonata ad un certo punto) e non hanno una vita che non sia l’obiettivo, la ricerca e la caccia. Chi ha un atteggiamento un po’ più morbido (Sandrine Kiberlain) è vista come un ostacolo. Questo è quanto è importante questa guerra per il film.

E se per Peter Berg l’antiterrorismo è una guerra proprio è perché si tratta sempre di una questione di lavoro sul campo, di singole persone che fanno qualcosa di eccezionale in strada, nelle case e rischiando la vita in prima persona, in November invece è molto anche una questione di uffici, di scartoffie e ore di audio ascoltati per scoprire una conversazione utile. Non mancheranno un discorso enfatico di quelli che ispirano e innalzano gli animi fatto dal capo dell’antiterrorismo agli agenti (Jean Dujardin) e i consueti cartelli finali con le informazioni che rilanciano una lotta sempre viva e invitano indirettamente a non abbassare la guardia. 

Ma se November fa un grande lavoro cinematografico su questa ideologia non è per questo, questa è convenzione, lo fa quando mette in scena un’incredibile sparatoria di grande economia narrativa e sceglie di alternare agli spari i controcampi sulle persone che guardano e gli altri agenti, quelli non coinvolti nell’azione, che ascoltano e aspettano che sia finita. Nelle loro facce che sentono quel massacro terribile e assordante che spaventerebbe chiunque e che sono impassibili, ancora una volta determinate, focalizzate e ossessionate dal risultato e dall’attesa di capire come sia finita, c’è tutto il senso di un film in cui la gravitas creata giustifica tutto.

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