Prima il museo di storia naturale di New York, poi nel secondo film lo Smithsonian e ora la trasferta al British Museum. Cambiano i contenitori ma non il succo. Di museo in museo infatti non cambia l'odissea di un guardiano attraverso una serie di artefatti che prendono vita e non sanno di essere artefatti animati, tra esseri umani da convincere (con relative gag) e animali da combattere. Non cambia nemmeno l'idea comica di avere di volta in volta strane opere o sculture peculiari che reagiscono ai passanti come personaggi della propria epoca (stavolta è la statua di cera di Lancillotto), aumenta solo la brigata che ogni volta il guardiano si porta dietro, costituita dal meglio dei personaggi conquistati nell'episodio precedente (la personificazione del principio base dei sequel "more of the same").
Questa volta dunque l'avventura tutta in interni di Shawn Levy si divide in tre blocchi: quello principale di Ben Stiller e Robin Williams, quello dei piccoli Owen Wilson e Steve Coogan in un universo da Shrinking man e infine un segmento con Rebel Wilson (guardiana del museo inglese) e un uomo preistorico sempre interpretato da Ben Stiller.
Arrivato al terzo film il principio alla base della storia si è ovviamente usurato, dunque gli scheletri di dinosauro che si comportano come cani o le statue dei leoni che invece si comportano come gattini o ancora l'aderire delle ricostruzioni storiche alla realtà della storia (il plastico di Pompei in cui erutta il vulcano), sono più che risaputi e regalano qualche risata solo per il piacere della ripetizione del noto. Nè il grande inseguimento di un oggetto conteso (la tavoletta da cui dipende la vita degli artefatti) può animare uno svolgimento scialbo a cui solo la dinamica da videogame (in ogni stanza un boss diverso da affrontare) può donare un po' di ritmo.
Come un unico lungo film o le diverse prove di un medesimo spettacolo, i tre film di Una notte al museo narrano la medesima storia con fogge, gag e personaggi che sono le variazioni dei medesimi temi, incastrati lungo la medesima struttura. Sembrano degli adattamenti gli uni degli altri e, così come sono intesi, sono replicabili in qualsiasi altra struttura museale a partire dall'originalità dei loro pezzi (ad esempio al Louvre con la Gioconda, la Venere di Milo o la Nike alata). È il segreto del loro continuo successo, dare al pubblico quel che cerca con precisione millimetrica, e contemporaneamente quello della loro infinita stanchezza, sempre più prodotto industriale fatto in serie (se non lo erano già alla prima versione) e sempre meno guizzo inventivo.
A stupire è solo la chiusa del film, di inedita malinconia e incomprensibile tristezza. Giunti (forse) alla fine della corsa
Levy e
Stiller hanno deciso di concludere quest'avventura nella meno prevedibile delle maniere e soprattutto con un primo piano del protagonista, eslcuso da tutto, che ha un tono fatalista e autunnale che non appartiene alla saga o al genere e che, proprio per questo, risveglia di colpo l'assopito spettatore.