Nothing but the Truth, la recensione
Con un perfetto equilibrio tra realtà dei fatti e deviazioni da essa Nothing but the truth centra la grande epopea idealistica sul corpo di Kate Beckinsale
E dire che è un bel film, ben scritto e ben adattato dalla realtà, con la sapienza di prendere lo spunto morale (cioè ciò che impressiona, che qualcuna davvero abbia resistito come la protagonista) ma saper deviare dal realismo quando serve di fare fiction, di aumentare, sottrarre o giocare con le convenzioni del cinema. Soprattutto Nothing but the truth è un film scritto con grandissimo equilibrio da Rod Lurie, probabilmente il suo primo script così teso, preciso e misurato.
La forza di Kate Beckinsale (una volta tanto) è quella della fermezza, il suo corpo femminile, solitamente (specie nel 2008) pronto a colpire è stavolta il tipico corpo che subisce, pronto ad accettare il dolore, massacrata da accuse, prigionia, angherie e separazioni dei figli, tutto quello che il procuratore Matt Dillon riesce ad infliggerle, ma lo affronta senza muoversi dal proprio principio, fornendo così ad esso lo statuto delle grandi idee e, in breve, pietra fondante del nostro essere umani. Lungi dall'essere sbrigativamente archiviato come un film sul giornalismo (di quella morale tratta), il vero pregio di Nothing but the truth sta nel suo farsi parabola universale, tirare così allo stremo la morale professionale da farne una questione di umanità. Quanto siamo legati ai nostri principi? Quanto siamo disposti a lottare per essi? Qui entra il realismo, la storia della vera reporter, Judith Miller, realmente rimasta fedele al dettame della segretezza contro tutti i suoi interessi, qui questo film di finzione si ancora bene alla verità, senza rimanere vittima della verità ma capace di usare eventi reali e inventati per costruirne una sua di verità.