Not Okay, la recensione

Con una capacità rara per il cinema americano di raccontare il peggio della società Not Okay è divertente, intelligente e senza redenzione

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Not Okay, in uscita il 29 luglio su Disney+

Complice il fatto che molti film prima pensati per la 20th Century Fox o per la sua divisione Searchlight sono finiti su Disney+, complice che poi alcune produzioni Disney minori sono di ottimo livello e che infine (come in questo caso) anche i film Starz confluiscono lì, continuano ad arrivare su quella piattaforma opere sorprendenti. Not Okay è senz’altro una di queste, un film con caratteristiche e scrittura come non se ne vedevano da tempo. Sulla base di un equivoco comico classico, che scatena prima l’esaltazione e poi la caduta della protagonista, tutta la storia di questa ragazza in cerca di fama e riconoscimento è una grandissima storia sulla potenza dello statuto di vittima nei media moderni, sulla desiderabilità di quella posizione nella società e su quanto, collettivamente, sia nata una cultura delle vittime. Come il miglior cinema commerciale, divertendosi e divertendoci Not Okay fa una satira di costume affilatissima. 

Innanzitutto la protagonista, Danni, non la consueta ragazza simpatica in difficoltà ma una totalmente priva di qualsivoglia talento, innamorata di un influencer di erba e canne che non la considera, piena di privilegi (a cominciare da una famiglia benestante alle spalle) ma così arrivista da non stare simpatica a nessuno (nemmeno a noi) e incline ad inventarsi problemi e autocommiserarsi (“mi sono persa l’11 Settembre” è uno dei suoi problemi più esilaranti). Non sapendo come scalare i ranghi cerca fama online e lo fa mentendo su un corso per aspiranti scrittori a Parigi. Si chiude in casa e carica su Instagram foto modificate fingendo di essere in Francia. Solo che come in Capricorn One, pochi secondi dopo aver messo una foto di fronte all’Arco di Trionfo arriva la notizia di un terribile attentato a Parigi proprio lì. Per non farsi scoprire dovrà fingersi vittima e facendolo ne scoprirà i vantaggi.

Danni diventa un’autorità nella testata in cui faceva l’editor di foto e nella quale nessuno (giustamente) voleva farla scrivere. Ora i suoi articoli per Depravity (nome eccezionale) sono condivisi, diventa amica di una vera vittima di attentato con molti più follower di lei e la imita in tutto, la copia e si fa aiutare. Conquista anche l’influencer di CBD (in una grande trovata di regia i due scambiano parole dolci dietro alla luce circolare per foto da influencer e davanti ad uno sfondo finto). Come però anticipato dalle prime scene tutto è destinato a crollare.

Quinn Shephard scrive e dirige questo secondo film dimostrando una chiarezza di pensiero e una capacità di parlare di società attraverso strutture standard che non è comune. Soprattutto non dimenticando nulla, anche di coinvolgere “gli altri” nella sua critica. Danni infatti lancia l’hashtag #ImNotOkay che riscuote un gran successo perché consente a tutti di potersi professare vittima di qualcosa, di mettersi nella posizione di essere quelli da compatire. Né Quinn Shephard dimentica di dare una spallata alla vera rabbia di protesta, disegnando la vera vittima amica di Danni con i toni furiosi diGreta e poi trovando in un eccezionale finale un rispetto vero per le vere vittime che non salva la protagonista ma anzi la condanna ad una vergognosa uscita di scena priva di redenzione.

Raramente il cinema americano è stato così in grado di raccontare una protagonista misera perché rappresentativa dell’atteggiamento medio.

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