Nostalgia, la recensione | Cannes 75

Un eccezionale Favino mette sui binari migliori un film che per il resto non riesce mai a dare un senso alle molte idee che pure ha

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Nostalgia, il film di Mario Martone in concorso a Cannes e in uscita in sala dal 26 maggio

Inizia con un inganno questo film di Mario Martone (il primo non in costume girato negli ultimi 20 anni circa), affermando cioè che la nostalgia è una forma di conoscenza e quindi implicitamente promettendo e anticipando il ruolo che questo sentimento giocherà nella storia. Eppure lungo tutto questo film che sì intitola Nostalgia, in cui di nostalgia ce n’è molta e nel quale il rapporto del protagonista con il passato è cruciale, la nostalgia non sarà mai una forma di conoscenza. Ancora più in grande si può dire che non riusciremo mai ad intuire cosa la nostalgia stia facendo a Felice (questo il nome del protagonista), che mancava da 40 anni da Napoli per ragioni che capiamo nel corso del film. Certo, l’impatto che i ricordi hanno su di lui è talmente forte da trattenerlo più del previsto e innescare molte dinamiche dell’intreccio, ma lo stesso manca sempre il salto interpretativo o almeno la spintarella del film per un salto interpretativo, intorno a queste idee.

In una storia fatta di camminate per strada, vicoli di Napoli, incontri, ricordi e dettagli che sbloccano memorie o alle volte solo madeleine, c’è l’ombra del crimine (il cinema italiano è così innamorato del crimine napoletano che lo usa anche per film non criminali). Felice mentre trova sua madre, visita appartamenti da affittare e parla con un prete di quartiere particolarmente bellicoso è sempre osservato dalla malavita. La ragione ha a che vedere con un suo vecchio amico e cosa accadde 40 anni fa.
Questo è l’intreccio che consente a Martone di esplorare il rione Sanità, un pretestone per raccontare il rapporto di una persona con la città, senza perché il film dica davvero qualcosa di significativo e sensibile su questo rapporto. Nonostante la presenza costante di Napoli (e di un sonoro studiatissimo per invadere lo spettatore con i rumori cittadini) quel paesaggio è sempre distante e, ancora peggio, ripetitivo. Non siamo attirati da una vera esplorazione perché ben presto diventa ripetizione.

Favino, cioè il protagonista, riesce ad essere sempre molto più forte (e meno male!), anche grazie al consueto grande lavoro su lingue e accenti con i quali spesso alimenta la sua recitazione. È lui con scarsissimo aiuto dallo scenario, a rendere l’impatto della città sul personaggio con le minuzie di una recitazione studiatissima per veicolare la gran parte del senso di questa storia. E dire che la scenografia è anche molto curata! Ci saranno degli appartamenti brutti perché trascurati (come lui che ha trascurato la madre), degli appartamenti brutti e abbandonati (perché chi ci vive è stato abbandonato e da solo si è abbandonato al lato peggiore di sé) e altri invece solari, fioriti e vitali (perché il protagonista ha risolto un nodo cruciale). A mancare di certo non è il lavoro sul paesaggio (interno o esterno), è che non va mai più in là di queste notazioni.

A sfuggire in questo film dalla fattura molto buona, è davvero un senso ultimo. Anche l’incontro con l’amico che viene caricato per tutta la durata del film sarà abbastanza deludente da qualsiasi punto di vista lo si voglia guardare, un momento blando senza un vero perché. E così il rapporto con la memoria, il ricordo, la città, il passato, l’eredità morale e tutto quanto è ambiguo e poco chiaro, specialmente grazie ad un finale (lo stesso del romanzo di Rea) che non è ben chiaro cosa voglia significare, perché avvenga o come ridefinisca il film che abbiamo visto.

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