Nope, la recensione

Jordan Peele si diploma e passa da grande promessa a grande autore mainstream, con un film pieno di idee e anche di piacere immediato

Critico e giornalista cinematografico


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La nostra recensione di Nope, il film di Jordan Peele nelle sale italiane dall'11 agosto

Che ci sia un UFO nel cielo sopra il ranch dei fratelli Haywood Nope ce lo fa intuire quasi subito (per non dire del trailer). Lo vediamo passare di fretta, ne scorgiamo l’ombra dietro una nuvola che lo copre e sempre di più, con l’avanzare del film, maturiamo l’idea che stiano arrivando gli alieni perché il film gioca con noi e con quello che sa che già sappiamo prima di entrare in sala. È un meccanismo non diverso da quello di Gli uccelli di Hitchcock, in cui gli uccelli del titolo incombono e sono “in arrivo” molto a lungo prima che davvero tutto deflagri. Jordan Peele tende di continuo trappole di suspense lungo Nope e lo scopo non è solo la tensione (quella semmai è la maniera in cui rende accettabile il suo scopo) ma controllare quel che il pubblico si aspetta per poi sorprenderlo con una rivelazione fuori dal novero delle possibilità che il cinema ha esplorato fino ad oggi.

Quando tutto sarà svelato invece inizierà a guardare a Lo squalo, a usare un festone come Spielberg usava i barili gialli (l’oggetto che comparendo segnala la posizione della minaccia senza che noi la vediamo), un suono terribile come la musica di John Williams (quando si sente capiamo che la minaccia è arrivata) e, più in generale, a contaminare quel tipo di cinema di caccia con il western (come faceva Lo squalo) e poi con ispirazioni anche più imprevedibili (inquadrature rubate ad Akira e un’idea visiva nel finale che è una delle invenzioni più originali di Evangelion). È un armamentario di modelli come Peele non aveva mai schierato ma serve al suo film più complicato e più stratificato, in cui c'è qualcosa per ogni tipo di pubblico, in cui nutre la sua passione per la tensione e nel quale il suo discorso sulla sottomissione si svincola da condizioni, casi e storie particolari per farsi il più universale possibile. Un vero film di svolta che lo trasforma da promessa ad autore in grado di reggere macchine complesse, major, pressioni e storie più grandi. E un film molto bello.

E proprio perché è così buono forse non è un caso che sia un western, uno da Jordan Peele però, in cui i cowboy sono asiatici e afroamericani (ma di razza, discendenti del primo fantino del cinema, l’uomo sul cavallo nelle foto in movimento di Muybridge, un dettaglio vero raccontato e spiegato come fossimo in un film di Tarantino). La scelta cade su un immaginario potente dentro al quale raccontare una storia che parla molto di cinema (il western del resto è il cinema), di spettacolo e di quanto l’atto del guardare sia predatorio. Dietro alla trama degli Haywood e della loro lotta con quel disco volante che si muove nel cielo infatti ce n’è un’altra, ed è esattamente dall’unione di queste due trame che si crea il cinema di Jordan Peele. A rendere potenti i suoi film (e questo è un grande film, uno che gonfia i precedenti e fa il salto nel mondo dei filmoni senza perdere niente, anzi) non sono solo i suoi spunti originali ma la maniera in cui è capace di condurci al loro interno, il modo in cui li esplora e i contesti nei quali sceglie di inserire le storie. Quello, più che lo spunto, rende evidente che in esse ci sia qualcosa di paradigmatico. Se insomma lo spunto conquista sono le atmosfere e i contesti che parlano davvero.

In Nope esiste proprio una storia parallela, quella che apre il film solo in audio e che poi vedremo più volte, la storia di Gordy scimmia in una sit-com anni ‘90, che durante una di queste registrazioni (di quelle dal vivo con il pubblico) impazzisce e fa una strage (ve ne abbiamo parlato anche qui). Una tragedia che Peele mostra per quello che è, con dovizia di sangue e terrore ma che nel tempo, passati i decenni capiamo essere stata mangiata di nuovo dai media e trasformata in farsa, riassorbita dallo showbusiness. Ne vediamo copertine satiriche di Mad Magazine e si fa riferimento ad uno sketch del SNL che lo prendeva in giro. È un aneddoto terribile che ci accompagna per tutto il film con il suo fare inquietante e le sue conseguenze e che dà la misura del senso di ribellione profondo e seppellito benissimo di Nope, ribellione di chi è sottomesso per essere guardato. Dunque se questo terzo film di Jordan Peele intrattiene è per la sua ottima fattura e la maniera nella quale crea bene un’avventura soprannaturale, inventando con il direttore della fotografia Hoyte Van Hoytema uno scenario perfetto e un’idea visiva di quelle destinate a rimanere e rivedere il modo in cui guardiamo il mondo, cioè quella della nuvola che a differenza delle altre non si muove (ma c’è anche un’azione di gran livello e un senso del movimento, del rischio e del coraggio bellissimi). Tuttavia se il film lascia una profonda inquietudine è per come sa raccontare nella maniera più dura l'atto del sottomettere e ovviamente il suo contrario, il ribellarsi.

Ad un certo punto Daniel Kaluuya dice un “No” in macchina, al buio, nel quale c’è tutto. È un “No” profondo che arriva nella seconda parte del film, dopo tanti eventi e molta paura, dopo che abbiamo capito che non è solo un no di spavento ma soprattutto il no di tutti i personaggi di Peele, che non accettano di essere sottomessi e non accettano, come si dice qui, di abbassare lo sguardo verso il terreno per sopravvivere ma si ribellano per vivere.

Cosa ne pensate della nostra recensione di Nope? Ditecelo nei commenti qua sotto!

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