Non riattaccare, la recensione

Con una struttura narrativa alla Locke ma calata nel contesto pandemico in cui si svolge, Non riattaccare è un thriller coinvolgente sostenuto dall'ottima prova di Barbara Ronchi

Condividi

La nostra recensione di Non riattaccare, presentato in Concorso al Torino Film Festival 2023

Uscito negli Usa nel gennaio 2022, Sick di John Hyams rileggeva le classiche dinamiche dello slasher alla luce dell'esperienza del Covid, dandone nuova valenza. Un'operazione simile la compie Non riattaccare, opera seconda di Manfredi Lucibello, verso certi stilemi del thriller. Soprattutto per questo aspetto, il film, presentato in Concorso al Festival di Torino 2023, trova la propria strada e si può dire riuscito, evitando di cadere nelle tipiche trappole di altri film italiani di genere. Durante una notte di quarantena, Irene (Barbara Ronchi) riceve una chiamata dal suo ex compagno, Pietro (Claudio Santamaria), che non sente da meso. L'uomo, salito sul tetto della propria casa al mare, le comincia a confidare i propri pensieri tristi in mezzo a tante parole confuse. Così la donna, temendo il peggio, si imbarca in un viaggio in auto per raggiungerlo, durante il quale i due continuano a parlare al telefono con la promessa di non chiudere la conversazione.

Escluso il veloce incipit, il film si svolge quasi interamente nell'abitacolo dell'auto della donna, tenuto in piedi dall'ottima performance di Barbara Ronchi e dalla voce fuoricampo di Santamaria. Una struttura narrativa che richiama Locke con Tom Hardy, con cui Non riattaccare condivide la capacità di mantenere alta la tensione, senza subire sostanziali cali. La macchina da presa si muove in uno spazio ristretto alternando bene le poche soluzioni a disposizioni (primo piano della donna, inquadrature frontali, particolari dell'auto) sufficienti a dare il giusto dinamismo alla messa in scena. L'intreccio riesce a coinvolgere grazie a piccoli espedienti (la benzina che sta per finire, il cellulare che sta per scaricarsi) e alle conversazioni dei due protagonisti, dove emergono a poco a poco dettagli sul loro passato e sulla loro relazione. Avremo un quadro completo solo alla fine, ma (per fortuna!) questo aspetto non diventa il fulcro della narrazione. Insomma, i traumi dei personaggi, la loro backstory, non prevarica (quasi) mai la dimensione thriller, ma anzi le due riescono a trovare un buon equilibrio.

Non riattaccare trae infatti il proprio punto di forza dal contesto in cui è calato. L'intreccio rielabora alcune situazioni tipiche del genere alla luce dell'esperienza della pandemia e del confinamento, ad esempio il divieto ad uscire di notte per il coprifuoco in corso e la conseguente paura del controllo della polizia che qui chiedono l'autocertificazione. Elementi alla base anche della caratterizzazione di Pietro, la cui solitudine nasce dall'isolamento forzato. Senza stravolgere nulla o divergere dalle coordinate del genere, il film ne offre minima ma pregnante variazione. Così, anche quando, prima del colpo di scena finale, opta per una veloce torsione nel melodrammatico, non scade nella banalità o nel ricattatorio, perché porta avanti considerazioni su un piano ancora poco esplorato, riuscendo a farci empatizzare con i personaggi. Tanto che anche una scena conclusiva fin troppo tirata non intacca il risultato complessivo.

Continua a leggere su BadTaste