Non pretendo che qualcuno mi creda, la recensione

Estenuando i luoghi comuni del noir fino alle sue manifestazioni più assurde, Non pretendo che qualcuno mi creda raccontala sgangherata e paradossale storia di Juan Pablo Villalobos, un giovane dottorando messicano la cui vita sentimentale e lavorativa viene controllata da un’organizzazione criminale che lo segue nella sua nuova vita a Barcellona.

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La recensione di Non pretendo che qualcuno mi creda, su Netflix dal 29 novembre

Estenuando i luoghi comuni del noir fino alle sue manifestazioni più assurde, Non pretendo che qualcuno mi creda racconta la sgangherata e paradossale storia di Juan Pablo Villalobos, un giovane dottorando messicano la cui vita sentimentale e lavorativa viene controllata da un’organizzazione criminale che lo segue nella sua nuova vita a Barcellona. Come a prendere in giro quel complottismo che da sempre, nel genere, vede un protagonista ordinario trascinato in qualcosa decisamente più grande di lui, il film di Fernando Frias è formalmente una trappola senza uscita (la narrazione, volutamente, è inspiegabile) che di questa assurdità situazionale fa una bandiera per raccontare uno stato di cose: lo scarto tra realtà e immaginazione.

Ciò che rende Non pretendo che qualcuno mi creda un film decisamente stimolante quanto ostico, è il fatto che la sua premessa è potenzialmente inesauribile e la soddisfazione per il viaggio compiuto dal protagonista durante gli eventi difficilmente supera il desiderio di chiarezza per una storia “senza senso”. Per intenderci, il meccanismo è simile a quello di Vizio di forma di Paul Thomas Anderson, cui Fernando Frias si accosta per un fattore chiave: la comicità.

È infatti comicamente sempre orientato il protagonista Juan Pablo (Dario Yazbek Bernal), che dal momento in cui assiste all'omicidio del cugino da parte dei gangster, viene obbligato a portare avanti un “progetto segreto” che neanche lui sa cosa sia. E così, pedinato da un cinese, un pakistano e monitorato dal boss “Il laureato”, Juan Pablo viene obbligato a rivedere la sua relazione con la fidanzata Valentina e a cambiare la sua ricerca di dottorato, tutto secondo direzioni di fatto esilaranti da cui è alieno (deve prendere la classe di studi di genere, seguire i gangster in qualsiasi momento). Tra una dermatite nervosa e una disperazione rassegnata , Juan Pablo è un inetto senza polso su cui Frias orienta anche esteticamente la risata: facendolo scomparire nei grandi spazi, un dettaglio nell’insieme delle cose; o sottolineandone lo sguardo perso nel vuoto, l’evidenza di un tonto al limite del mutismo selettivo.

Succube della vita e dei fatti, la straordinarietà di ciò che sta vivendo è la sola cosa che caratterizza il protagonista: per questo, scrivere un romanzo (Non pretendo che qualcuno mi creda) è ciò che dà il senso alla sua vita. Qua sta la chiave del film, che dell’assurdità fa un monumento, una questione formale per nulla scontata e che, per quanto possa sembrare ostica, è in realtà decisamente raffinata. È lo scarto tra le aspettative del realismo e le sue conseguenze in questa storia che, al contrario, orienta i fatti del film a partire da ciò che nel romanzo del protagonista è più funzionale.

Valentina (Natalia Solián), la fidanzata, per quanto abbia tanto spazio nel film ha il percorso narrativo più inconcludente, meno chiaro rispetto al senso (non tanto alla trama) che il suo personaggio ha in questa economia dell’assurdo. L’esito quindi è talmente contorto che ognuno potrà leggere nel film quello che vorrà - esattamente nello spirito del modernismo letterario più spinto (si percepisce la derivazione romanzesca), che l’umorismo di Frias riesce a raccontare ma non senza perdere per strada qualcosa.

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