Non mi uccidere, la recensione
Due diverse anime lottano in Non mi uccidere, una trama vecchio stampo raccontata non bene e un impianto visivo che dice tutto quello che serve
La storia di Non mi uccidere è quella di Mirta che torna dalla morte senza sapere perché, scopre di essere una sopramorta, cioè un essere morto che deve cibarsi di persone vive per non deperire, dotata di grande forza e parte di una comunità che viene cacciata da secoli. Lei in realtà cerca il suo amore in vita, sperando torni anche lui dalla morte. In tutta la prima parte del film, quella in cui vengono gettate le basi e in cui l’intreccio è temporaneamente messo da parte, Non mi uccidere dà il suo meglio. Tra flashback della vita vissuta e un primo giro notturno della protagonista appena uscita dalla tomba ignara di cosa le sia accaduto, la gran cura cromatica e l’affiancamento continuo dell’immaginario tombale con quello dell’innocenza (vesti bianche e nero della foresta) o del sentimentalismo adolescenziale funziona molto.
Anche per questo è perfetta la scelta di Alice Pagani, forse il corpo e il volto più interessanti tra quelli emergenti (ma si era capito in Baby e ancora prima si era capito dall’apparizione lampo, di pura presenza, in Loro), di certo il più calzante se non proprio l’unico calzante in Italia per un simile immaginario. L’unica che visivamente riesca ad unire gli estremi che servono: il romantico e il nero.
Al contrario, quando Non mi uccidere si ferma e lavora di evocazione per richiamare sentimenti di solitudine, opposizione al mondo e il romanticismo che si alimenta di tristezza o malinconia invece che di eccitazione, parla bene di un bisogno fortissimo di sentimenti intensi. Gestisce benissimo l’ossimoro al cuore di quel mondo di riferimenti (amarsi è farsi del male, vivere per davvero è morire) e riesce effettivamente ad estrarre il massimo del sentimento dalle medesime zone in cui si trova il dolore.