Non mi uccidere, la recensione

Due diverse anime lottano in Non mi uccidere, una trama vecchio stampo raccontata non bene e un impianto visivo che dice tutto quello che serve

Critico e giornalista cinematografico


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C’è uno scontro molto forte in Non mi uccidere tra la scrittura e l’immagine, tra la storia che viene raccontata (ma anche la mitologia che viene imbastita) e invece tutto quello che film dice con l’impianto visivo. È uno scontro che non fa bene per niente al film e che rivela le tensioni forti che lo pervadono, le intenzioni e le ambizioni diverse che lo animano. Da una parte c’è l’omonimo romanzo di Chiara Palazzolo (uscito nel 2005, stesso anno in cui usciva il primo romanzo di Twilight, con cui ha in comune l’approccio emo fortemente romantico a una tradizione horror) e dall’altra c’è Andrea De Sica, che già con I figli della notte, nell’ambito diverso del cinema da festival, aveva dimostrato una certa passione per le illuminazioni particolari, uso dei colori e in generale delle immagini come forma di scrittura.

La storia di Non mi uccidere è quella di Mirta che torna dalla morte senza sapere perché, scopre di essere una sopramorta, cioè un essere morto che deve cibarsi di persone vive per non deperire, dotata di grande forza e parte di una comunità che viene cacciata da secoli. Lei in realtà cerca il suo amore in vita, sperando torni anche lui dalla morte. In tutta la prima parte del film, quella in cui vengono gettate le basi e in cui l’intreccio è temporaneamente messo da parte, Non mi uccidere dà il suo meglio. Tra flashback della vita vissuta e un primo giro notturno della protagonista appena uscita dalla tomba ignara di cosa le sia accaduto, la gran cura cromatica e l’affiancamento continuo dell’immaginario tombale con quello dell’innocenza (vesti bianche e nero della foresta) o del sentimentalismo adolescenziale funziona molto.

Non mi uccidere ha quindi una trama piena di spunti molto commerciali e modaioli (di una moda un po’ passata) unita al suo opposto, cioè atmosfere rarefatte e compassate che spingono con molta molta moderazione verso il cinema d’autore. È chiaro fin dall’inizio, quando la morte dei due protagonisti è annunciata non solo dal classico incidente sventato in cerca di emozioni potenti ma soprattutto dall’immagine migliore del film, quella di loro, ancora vivi, con il volto macchiato della droga iniettata negli occhi che li ucciderà. Non sembrano morti, sembrano l’immagine della morte al lavoro ma sono vivi. Rispondono in pieno all’immaginario cui il film si appoggia, quello classico dark rielaborato dalla sottocultura emo degli anni 2000.

Anche per questo è perfetta la scelta di Alice Pagani, forse il corpo e il volto più interessanti tra quelli emergenti (ma si era capito in Baby e ancora prima si era capito dall’apparizione lampo, di pura presenza, in Loro), di certo il più calzante se non proprio l’unico calzante in Italia per un simile immaginario. L’unica che visivamente riesca ad unire gli estremi che servono: il romantico e il nero.

Purtroppo la trama si rivela sempre meno esistente. Più viene svelata meno è interessante, più monta più appare vecchio stampo. Piena di spiegoni, urlata e tutta concentrata alla fine la trama è un disastro. Una origin story derivativa che non distribuisce bene i pesi delle varie rivelazioni e non sempre capace di spingere bene sulle motivazioni che la dovrebbero animare.

Al contrario, quando Non mi uccidere si ferma e lavora di evocazione per richiamare sentimenti di solitudine, opposizione al mondo e il romanticismo che si alimenta di tristezza o malinconia invece che di eccitazione, parla bene di un bisogno fortissimo di sentimenti intensi. Gestisce benissimo l’ossimoro al cuore di quel mondo di riferimenti (amarsi è farsi del male, vivere per davvero è morire) e riesce effettivamente ad estrarre il massimo del sentimento dalle medesime zone in cui si trova il dolore.

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