Non così vicino, la recensione

Nemmeno Tom Hanks riesce a trovare un senso a Non così vicino, che non sia l'essere il più velleitario film indie della stagione

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Non così vicino, nelle sale dal 16 febbraio

Che brutta storia quella di Marc Forster! Partito come regista personale con film come Monster’s Ball e anche piacevoli stranezze come Vero come la finzione, ha tentato il salto nel mondo dei registi “uno per me, uno per gli studios” con uno dei peggiori film di 007 della gestione Daniel Craig (Quantum Of Solace) e da lì ha rimbalzato tra progetti commerciali di dubbio gusto e incerta riuscita (World War Z, Machine Gun Preacher e Ritorno al bosco dei 100 acri), per finire ora a questo remake di un film svedese che sembra davvero portare la Svezia in America. E decisamente non è un complimento.

Otto vive in una specie di condominio con strada privata, più tipico di Stoccolma che di Pittsburgh, e la sua principale occupazione è rompere le scatole a tutti imponendogli di rispettare le regole. È antipatico e odioso, ma con le uniche soluzioni di regia interessanti di tutto il film vediamo che in casa sua ci sono cappotti da signora e cappottini da bambina anche se in casa è solo. Capiamo da noi che qualcosa è successo, la sua vita prima doveva essere diversa. Nella zona condominiale arriva una coppia incasinata di cui lei, ispanica, empatica e irresistibile, lentamente comincia a far breccia nella sua anima tormentata.

Non così vicino è un film giocato su opposizioni a dir poco elementari (come il presente plumbeo e i flashback pieni di colori), estremamente monotono e ripetitivo sia nel presente che negli eventi del passato (che ad un certo capiamo bene dove vanno a parare) e tutto per la più classica storia di un lutto mai davvero elaborato e di come quest’elaborazione possa sempre avvenire (categoria: “non è mai troppo tardi per tornare al cimitero a parlare con le lapidi”). Ciò che è davvero fastidioso è come a tutto ciò sia applicato il filtro da cinema indie americano con una premessa solo fintamente cinica (lui che cerca di suicidarsi non riuscendoci) per poi fare l’opposto, cioè raccontare una storia piena zeppa di miele. Forster è disposto senza nessun ritegno a scambiare in poco meno di un secondo tutto il cinismo promesso con una ruffianeria senza limiti e senza regole. Del resto quando ti fai scrivere l'adattamento dallo sceneggiatore di Il ritorno di Mary Poppins è anche irragionevole aspettarsi un esito diverso.

Nell'insipienza generale Tom Hanks pure sembra ai minimi, ripiegato tra il burbero Eastwood di Gran Torino (se la prende anche con i giovinastri smidollati del giorno d’oggi) e il Jack Nicholson vedovo di A proposito di Schimdt, così ordinario che è facile che accanto a lui emerga Mariana Treviño, la donna ispanica piena di desiderio di vivere e sentimento, capace davvero di illuminare gli ambienti con la propria presenza, di cambiare il tono delle scene solo con la propria recitazione e riempire le inquadrature. Lei è la parte migliore di un film che poi, nel finale, non esita ad insultare l’intelligenza degli spettatori ordendo anche uno showdown con dei cattivi nel quale Otto potrà dimostrarsi un vero protagonista positivo.

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