Non c'è Bisogno di Presentazioni 1x06, la recensione

La nostra recensione dell'ultimo episodio dello show di Letterman su Netflix, Non c'è Bisogno di Presentazioni

Critico e giornalista cinematografico


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Come in un film l’ultima puntata di Non c’è Bisogno di Presentazioni sembra risolvere tutto un programma, sembra offrire la chiave di lettura definitiva tramite l’incontro definitivo, con l’ospite che, sulla carta, meno sembrava poter essere quello determinante. Howard Stern, non molto noto al di fuori degli Stati Uniti, è il più grande showman radiofonico d’America, conosciuto più che altro per intemperanze e capacità di spingere oltre i limiti quel che si può dire e fare in radio, perseguitato da cause milionarie per quel che faceva ma anche baciato da ascolti incredibili, si è meritato copertine di rotocalchi e ha anche scritto un film sulla sua vita (Private Parts). Ad oggi va in onda su una stazione satellitare, al di fuori dello spettro radio e del controllo delle autorità.

Anche per questa ragione il programma stavolta inizia con un piccolo estratto da una puntata del Late Show di Letterman del 1984 in cui, per la prima volta, Stern era lì come ospite. Con quella clip, che spiega chi sia e cosa faccia, l’ospite è presentato al pubblico mondiale.

Stern è, ovviamente, anche un grandissimo intervistatore e la tendenza di questo programma di lasciare che siano gli ospiti a dover gestire il ritmo, mettendo Letterman in una strana posizione di essere quello che, come in uno specchio, è l’oggetto di una conversazione che formalmente non è mai su di lui, arriva alla sua sublimazione. Perché Stern, in questo sesto ed ultimo episodio di Non C’è Bisogno di Presentazioni è l’alter ego di Letterman, per tutta l’ora di durata della conversazione racconterà e parlerà di questioni che hanno un’eco diretto nella vita del presentatore, rispetto alle quali egli stesso più volte dirà “È così anche per me”, “È capitato anche a me”, “Per me è stato leggermente diverso”.

Inizialmente il piccolo monologo con cui Letterman convenzionalmente scalda il pubblico introduce quest’idea. Letterman cioè racconta di quando gli sia stato chiesto di tenere un programma radiofonico e lui abbia rifiutato (nonostante la grande libertà concessagli) perché è esistito Howard Stern e, si intuisce, non avrebbe senso per lui mettersi nello stesso campo da gioco di un simile gigante.

Howard Stern è insomma presentato come ciò che Letterman non è mai riuscito ad essere e tutti i soliti punti toccati (lavoro, figli, genitori) sono affrontati all’insegna delle uguaglianze o delle differenze con la carriera del presentatore.

Per la prima volta sembra che Non C’è Bisogno di Presentazioni sia stato scritto, che abbia avuto davvero degli autori capaci di dargli una forma. In realtà non è così, è una semi-coincidenza (Letterman ha voluto Stern tra i 6 da intervistare intuendo l’importanza che ha per lui). Il risultato è qualcosa di davvero franco in cui non solo l’ospite spiega bene molto di ciò che si cela dietro un grande trasgressore come lui è stato, un uomo di grandissimo successo spinto da insoddisfazioni paterne, da desiderio folle di arrivare e una forma di patologica opposizione a tutto che gli dava modo e coraggio di dire e fare ciò che sapeva essere al di là del tollerato, ma è anche così onesto da dimostrare un po’ di pentimento e un po’ di fierezza rispetto a tutto questo.

Dall’altra parte questo spiega anche molto di ciò che Letterman è diventato poiché anche lui si apre raccontando di quanto il lavoro lo avesse assorbito ad un certo punto e di come solo la nascita del figlio lo abbia convinto a rallentare i ritmi, facendolo diventare irrilevante: “Ma credo che i direttori della rete non avessero coraggio a licenziarmi”. Ad oggi, si comprende, a David Letterman non interessa più davvero lavorare, non ha nessuno stimolo reale, o almeno nulla di anche lontanamente paragonabile agli stimoli che spingevano i suoi successi anni fa, nulla di vicino a quella fame e sete indispensabili per diventare qualcuno, sia come Howard Stern, sia come Letterman.

Addirittura Stern sarà protagonista di un momento molto intelligente su Donald Trump, di cui lui è stato amico nell’era pre-politica, che ha ospitato più volte nei suoi programmi, del quale ha aneddoti tra lo strano e il comprensivo, per il quale ha anche parole di stima e da cui ha preso le distanze con onestà e dicendoglielo durante la campagna elettorale: “Donald io voto per Hillary, ma del resto anche tu in passato hai votato per Hillary!” L’esatto contrario dell’inutilissimo segmento in esterna confezionato per piaggeria nei confronti del suo pubblico in cui Letterman attraversa a cavallo una parte della Monument Valley che non è più un “monumento”, quindi non è più protetta, per volere dell’amministrazione Trump. Non sono fornite spiegazioni o ragioni, è solo un’occasione per dirsi indignati punto e basta e prendere un applauso.

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