Non C’è Bisogno di Presentazioni 1x05, la recensione

La nostra recensione del quinto episodio di Non C’è Bisogno di Presentazioni di David Letterman, con Tina Fey

Critico e giornalista cinematografico


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A differenza di tutti gli altri episodi stavolta David Letterman ha davanti una sua pari, qualcuno il cui universo di riferimento è simile al suo, il cui lavoro è simile al suo e che in un certo senso è il suo specchio. Arrivati al quinto di sei incontri è quasi chiaro che ciò che il nuovo programma di David Letterman mette in scena è David Letterman stesso, l’intervistatore per antonomasia riflesso in 6 ospiti speciali, i quali parlando della loro vita prestano il fianco a Letterman per parlare di sé o mostrare sé stesso senza risultare narcisista.

Con Tina Fey il copione è sempre lo stesso: carriera, figli, genitori. Certo aver messo proprio lei tra i 6 prescelti per il programma è già una scelta importante. Tina Fey è senza dubbio una delle figure più importanti in assoluto nello show business americano, raramente sotto i riflettori (è stata attrice nella sua serie 30 Rock, per il Saturday Night Live e in qualche film), è più che altro un’autrice comica potentissima e consapevole che ha aperto la strada assieme ad Amy Poehler per tantissime altre dopo di lei. In pochi danno luce a queste figure e che Letterman gliel’abbia data nello stesso programma in cui ci sono stati George Clooney e Barack Obama è più che significativo.

La conversazione si muove su territori più interessanti e personali e lo si capisce subito, da quando Letterman affronta temi che, è chiaro, sono vicini anche a lui come la gestione del fiasco sul palco per un comico, oppure l’esigenza di prendere posizioni e preparare monologhi su eventi di attualità, cronaca e politica. Tina Fey vanta infatti sia momenti molto alti (il lavoro che fece su Sarah Palin ai tempi del Saturday Night Live) che più controversi (un monologo di cui lei stessa ad oggi non è contentissima che voleva invitare il pubblico a non dare peso e non cavalcare le proteste neonaziste dopo i fatti di Charlottesville).

Su tutto però continua ad emergere il senso di grande insicurezza di Letterman. E non è chiaro se sia davvero insicuro al di fuori della gabbia dorata di un programma dallo schedule molto forte e dai tempi serrati come quello che aveva sulla CBS, o se faccia l’insicuro per dare un tono a se stesso, crearsi un personaggio e plasmare così un programma diverso. Di certo al sesto episodio è qualcosa che stucca e che, è evidente, non aiuta la conversazione.

Come del resto è ormai chiaro che non aiutano il programma i segmenti esterni, di interesse sempre minore e stavolta ambientati a Chicago (dove Tina Fey è cresciuta artisticamente) molto poco legati all’ospite e centrati invece su Buddy Guy il bluesman più volte ospite del Letterman show che, verso la fine del programma, scopriamo avere una serata con Paul Schafer (storico direttore della band del vecchio show) e lo stesso Letterman ad introdurre, insomma una cosa in famiglia da cui ha tratto un piccolo segmento di scarsa rilevanza.

Qui la domanda che forse è opportuno farsi è: una conversazione con Tina Fey, da parte di qualcuno che fa o meglio ha fatto il suo stesso mestiere poteva dare di più? E la risposta è: sicuramente. Basta vedere come è stato trattato male il momento in cui Letterman le chiede di spiegare con un esempio cosa siano le serate d’improvvisazione comica e lei, che non ha problemi, comincia ad imbastire un momento d’improvvisazione comica pensando di poter contare sulla spalla. Non solo non potrà contare su di lui e dovrà risolvere tutto da sola e in fretta (anche se ovviamente alla grande) ma ancora una volta a dare forma alla conversazione, ad aiutare i tempi e creare l’atmosfera giusta perché il pubblico si diverta, sia rilassato e non si senta in imbarazzo ci ha dovuto pensare l’ospite e non il padrone di casa.

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