Non aprite quella porta, la recensione

Un gruppo di ragazzi ritorna inconsapevolmente nei luoghi del massacro del 1973, accidentalmente risveglia Leatherface e non solo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione del sequel di Non aprite quella porta, dal 18 febbraio su Netflix

L’era di reboot e sequel che viviamo ha creato una nuova categoria: il film che riesce a rovinare il proprio modello originale. È un’operazione al limite dell’impossibile che tuttavia qualche volta riesce, quella di un film che riprendendo una storia, ripassando sopra i medesimi personaggi e le medesime situazioni ad anni di distanza riesce a "correggerli", gettare nuova luce e rivedere una mitologia in modo da farci riconsiderare al ribasso il film da cui prende spunto. È difficilissimo ma acccade.

Ci era riuscito l’allucinante Trainspotting 2, ci riesce Non aprite quella porta, sequel a 50 anni di distanza dal film originale, in cui compaiono ovviamente Leatherface (che dovrebbe essere anzianissimo anche se non pare proprio, ma è obiettivamente l’ultimo dei problemi) e anche una delle ragazze sopravvissute.

Al centro c’è una nuova compagnia di ragazzi che arriva nella cittadina in cui si è trasferito Leatherface con la madre (non più il maniero isolato ma una casetta in città dalla metratura più comoda e molto ben servito!), hanno ideali che subito si scontrano con la mentalità arretrata locale. C’è un accenno di horror in stile Jordan Peele, ma proprio un pizzico, il tempo di un battere di ciglia perché subito e senza ragioni i ragazzi iniziano a fare tutto quello che negli horror non si fa, scatenando la furia omicida.

È incredibile che questa storia così penosa venga da Fede Alvarez, che invece più volte ha dimostrato una capacità fuori dal comune di rivedere i classici al rialzo e non al ribasso. Incredibile che una sceneggiatura così priva di tensione o anche solo di meccanismi elementari sia stata approvata. Non aprite quella porta, che alla fine è stato diretto dal direttore della fotografia per eccesso di abbandono da parte di diversi registi, è uno slasher da pochissimo, forse il peggiore di questi anni.

Tuttavia non basta solo questo per peggiorare il film originale, ci vuole anche il massacro dei suoi simboli, Prima Sally, unica sopravvissuta della strage del 1973, diventata una specie di Sarah Connor/Laurie Anderson/Ellen Ripley, una sopravvissuta con fucile, e poi ovviamente Leatherface stesso, che qui vediamo praticamente sempre in scena ben illuminato, svuotato di ogni significato politico (ma anche proprio logico) che aveva nell’originale, svilito dalla trasformazione in una copia sbiadita di Mike Myers, generico killer con maschera. Questo insegui-ragazzi, spacca-ossa, squarta-carcasse a un certo punto imbraccerà anche l’iconica motosega e farà pure il balletto finale. Tutto svuotato di senso, tutto privo di quell’afflato che creava la mitologia e, lo si precisa per senso del dovere ma sarebbe a questo punto quasi superfluo, tutto per nulla spaventoso.

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