Il mio nome è vendetta, la recensione

In perfetta continuità con i modelli stranieri cui si rifà, Il mio nome è vendetta è un film medio che ha il difetto di sbagliare l'azione

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Il mio nome è vendetta, disponibile su Netflix dal 30 novembre

Nell’attesa che qualcuno pubblichi un volume, uno studio o anche solo una tesi di laurea sul ruolo che ha l’atto del chiamare nei titoli di film di genere italiani (proposta: “Da Trinità a Jeeg Robot fino a Guadagnino: i nomi nei titoli italiani”) registriamo un nuovo esempio di film di genere contemporaneo che crea un nesso con il cinema di genere storico italiano attraverso la locuzione del titolo. Stavolta il nome vendetta è solo metaforico ma introduce bene il vengeance movie che vuole essere Il mio nome è vendetta, canovaccio classico di un uomo apparentemente comune che rivela un passato di violenza quando subisce un torto.

Santo vive con la famiglia sui monti, non si fa fotografare ma quando la figlia lo fa e pubblica la foto subito i supercomputer al servizio dell’ndrangheta (sul serio) lo rilevano. Finalmente l’hanno trovato e pochi giorni dopo dei sicari vanno a fargli fuori la moglie. Rimangono lui e la figlia che a quel punto scopre (insieme a noi) chi è stato il padre e cosa sappia fare. I due devono fuggire e contemporaneamente contrattaccare per evitare di essere le prossime vittime.

Il calco sui modelli internazionali è tale che Il mio nome è vendetta ne ha anche tutti i più frequenti difetti, in primis una scrittura molto grossolana e una corrispondente recitazione a ruota libera. Chi ha il mestiere regge (Gassman è un buon uomo d’azione rovinato, plausibile come macchina di morte, Girone ha il ruolo che ha interpretato per tutta la vita, sarebbe credibile anche senza sceneggiatura), chi non lo ha invece affonda tutta le scene in cui compare. E poi c’è Alessio Praticò che in un ruolo defilato crea un personaggio molto più bello di tutto il film. Il suo figlio del grande boss è imprevedibile, una carta matta che anima tutta la trama, e ha una sua aurea di tragicità che lo rende il bastardo con cui empatizzare.

A compensare tutto c’è almeno un po’ di serietà con la violenza, molto sanguinolenta e calcata anche più del dovuto. Questo fa guadagnare dello street credit ad un film che ne ha un bisogno disperato, anche perché l’altro elemento che poteva essere cruciale, Sandrone Dazieri alla sceneggiatura, si fa sentire pochissimo. La ragione per la quale Il mio nome è vendetta rimane un film medio infatti non è nemmeno la scarsa capacità di creare sequenze d’azione coinvolgenti (che è un bel difetto ma più diffuso di quanto non si creda in questo genere), quanto la totale assenza dell’atmosfera nera che tanto cerca. È più un fumettino concentrato sull’action che però non esalta mai.

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