Il mio nome è vendetta, la recensione
In perfetta continuità con i modelli stranieri cui si rifà, Il mio nome è vendetta è un film medio che ha il difetto di sbagliare l'azione
La recensione di Il mio nome è vendetta, disponibile su Netflix dal 30 novembre
Santo vive con la famiglia sui monti, non si fa fotografare ma quando la figlia lo fa e pubblica la foto subito i supercomputer al servizio dell’ndrangheta (sul serio) lo rilevano. Finalmente l’hanno trovato e pochi giorni dopo dei sicari vanno a fargli fuori la moglie. Rimangono lui e la figlia che a quel punto scopre (insieme a noi) chi è stato il padre e cosa sappia fare. I due devono fuggire e contemporaneamente contrattaccare per evitare di essere le prossime vittime.
A compensare tutto c’è almeno un po’ di serietà con la violenza, molto sanguinolenta e calcata anche più del dovuto. Questo fa guadagnare dello street credit ad un film che ne ha un bisogno disperato, anche perché l’altro elemento che poteva essere cruciale, Sandrone Dazieri alla sceneggiatura, si fa sentire pochissimo. La ragione per la quale Il mio nome è vendetta rimane un film medio infatti non è nemmeno la scarsa capacità di creare sequenze d’azione coinvolgenti (che è un bel difetto ma più diffuso di quanto non si creda in questo genere), quanto la totale assenza dell’atmosfera nera che tanto cerca. È più un fumettino concentrato sull’action che però non esalta mai.