Nomadland, la recensione | Venezia 77

Chloé Zhao asciuga al massimo il dramma, rafforza l’impianto narrativo ed è ora finalmente libera di lavorare davvero sullo sguardo

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È finalmente arrivato il momento per Chloé Zhao di fare il grande passo. Perché se un piede è nella terra del passato, quella perduta dei cowboy dimenticati di The Rider - Il sogno di un cowboy e quella negata dei nativi americani di Songs My Brother Taught Me, l’altro ha solcato per la prima volta un nuovo orizzonte, trovando finalmente la vera dimensione della wilderness che aveva sempre sognato: la dimensione di Nomadland.

Non c’è più bisogno di indossare un vecchio cappello polveroso per riscoprire l’America. L’amato entroterra del cinema americano da ora non è più dei pionieri o degli uomini a cavallo, ma è donna, è intimo, è una condizione dello spirito. È la terra mai promessa ma ora rivendicata da Fern, ovvero Frances McDormand, una donna del Nevada “non senzatetto ma senza fissa dimora” che per guarire la ferita aperta della morte del marito (qui ancora si rivede la poetica della Zhao, che ha sempre declinato il lutto nella riconquista dello spazio) e riuscire a mantenersi da sola vaga di luogo in luogo a bordo di un piccolo camper, accettando qualunque tipo di lavoro. Ma Fern non è mossa solo dalla necessità, e giorno dopo giorno si rende sempre più conto che il suo essere nomade ha a che fare con il desiderio di liberarsi dal dolore: una liberazione che deve, per attuarsi, fare i conti con i luoghi.

Chloé Zhao asciuga al massimo il dramma correggendo la ridondanza dei suoi film precedenti, rafforza l’impianto narrativo concentrandosi su un obiettivo preciso del personaggio ed è ora finalmente libera di lavorare davvero sullo sguardo, visualizzando la dispersione emotiva di Fern quadro dopo quadro, luogo dopo luogo. Non c’è qui nessun tipo di innamoramento ingenuo verso il paesaggio, nessuna volontà puramente estetizzante: ora il paesaggio serve davvero a farsi riflesso del personaggio. Il solito pedinamento delle emozioni, cercate sempre con la camera ad altezza umana, in Nomadland non si perde ma si raffina e si lascia andare anche alla ricerca del campo lungo, di una significazione che non sta più solo nella vicinanza fisica all'attore ma che si apre anche alle grandi distanze.

In un viaggio apparentemente lineare e invece precisamente ciclico, diretto verso l'ignoto ma attratto dal suo punto di partenza (dove è necessario tornare per ritrovarsi davvero), Nomadland risolve la tensione di Fern tra ricordo e realtà, tra immagine costruita e immagine percepita. Perchè la percezione della vita, come la memoria della morte, è principalmente una questione di sguardo, che ha bisogno di osservare ostinatamente i volti del passato - nelle foto o nell'immaginazione - e di rivedere di persona i luoghi del dolore per ritornare ad essere libero. Scoprendo che, in fin dei conti, la realtà non è esattamente come la si ricordava.

Preciso e finalmente diretto, il lavoro di Chloé Zhao diventa qui vero cinema, ragionamento obliquo sulla potenza significante del mezzo. E lo fa da una parte con il gioco sul paesaggio, che tramite lo sguardo di un personaggio femminile, privato e contenuto, si sostituisce all'infinita tradizione del western fatta di sguardi maschili, i quali invece la terra la guardavano per poterla possedere; dall'altra con quello sull’attrice, Frances McDormand, che non è davvero solo Fern ma è il lascito della Marge dei Coen, dispersa in orizzonti incomprensibili, e della Mildred Hays di Martin McDonagh, dura contro un mondo ostile. Chloé Zhao lo sa, e allora si affida completamente a lei. E, finalmente, si fida anche della capacità del suo stesso sguardo.

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