Noi due, la recensione
Commovente senza mai essere sentimentale, Noi due è un eccezionale film su un padre e un figlio che parla di relazioni in modo universale
Chissà che sarebbe successo a Noi due se il festival di Cannes del 2020 si fosse tenuto. Il film fu selezionato e come molti, quando fu deciso di non tenere quell’edizione, si è dovuto accontentare dell’etichetta “selezione ufficiale di Cannes” e andare altrove (nel suo caso Toronto). Chissà perché quello di Nir Bergman è un film senza mezzi termini eccezionale, un vero capolavoro di minimalismo cinematografico, scrittura accorta, regia moderata e soprattutto interpretazione clamorosa. E come tutti i grandissimi film non è mai vittima del proprio argomento. Noi due è un film tutto centrato sul rapporto tra un padre e il figlio autistico ma non è mai, in nessun momento, nemmeno in una scena, un film sull’autismo. È un film sull’essere padri e ancora più in grande sulla maniera in cui tendiamo a dipendere dalle relazioni che stabiliamo.
Commovente davvero senza mai essere sentimentale, Noi due ha una schiena dritta invidiabile quando si tratta di lavorare sui sentimenti, soprattutto grazie a Shai Avivi, attore eccezionale, capace di creare il suo padre con un misto perfettamente credibile e subito comprensibile, di durezza e amore sconfinato che non ha bisogno di essere spiegato, passa dai gesti, dalle immagini, dai volti e dalla forza infaticabile che Avivi mette in questo viaggio.
Ci vorrà un intero film per capirlo, per comprendere profondamente i suoi sentimenti e sentirli così tanto nostri da arrivare pronti al gran finale in cui ogni seme fiorisce.
Sapere come funzioni Uri e quali siano i suoi problemi e le sue ossessioni, sapere bene come la pensa il padre, aver capito precisamente l’intensità del rapporto tra i due sarà l’arma con cui Shai Avivi, in un assolo di chiusura da premio (qualsiasi premio, scegliete voi) recita per due. Sia chiaro che Noam Imber, nell’interpretare il figlio fa un ottimo lavoro, ma alla fine Avivi recita i suoi sentimenti e quelli del figlio in un duetto a senso unico. Lo fa con un’economia di gesti, espressioni, movimenti ma soprattutto parole che gli consente di dire un paio di frasi per aprire un mondo.