Gli orsi non esistono (No Bears), la recensione
Al quinto film dalla proibizione di girarne Panahi riprende ancora se stesso ma in un microcosmo in cui sostituire la videocamera al corano
La recensione di Gli orsi non esistono - No Bears, l'ultimo film di Jafar Panahi, presentato in concorso al Festival di Venezia
Lui però dall’Iran non vuole scappare, anche se è tentato e potrebbe. E quando in No Bears (in cui è protagonista nel ruolo di se stesso, come capita negli ultimi film), sarebbe lì lì per farlo, chiede dove sia esattamente il confine con la Turchia e gli viene risposto che praticamente ci sta sopra, allora tira indietro il piede di scatto, terrorizzato, spaventato all’idea di essersene andato o di essere così vicino a farlo. E torna indietro di fretta. Panahi non sconfina, resta in Iran.
No Bears è un film gentile ed educato come sempre lo sono i suoi, scritto benissimo, in cui vengono creati degli incastri intelligenti, ironici e che dicono tutto quello che c'è da dire, in cui il microcosmo montano rappresenta lo stato, in cui la protesta stavolta si fa gentile, umoristica a tratti e nel quale impressiona ancora una volta come Jafar Panahi racconti (tramite la finzione) se stesso e la propria condizione (e recita sempre meglio, qui ha un'intensità in un finale aperto che è eccezionale). Non solo mostra pubblicamente come faccia a girare film (cosa che per lui è illegale) ma evita di nuovo di rappresentare l’autorità. Lui che sarebbe il più legittimato a dipingersi come un perseguitato e vessato invece fa dire ad un personaggio la frase più potente del film. Dopo che gli è stato intimato di non girare da solo perché ci sono gli orsi, Panahi scopre che “Non è vero, non c’è nessun orso. Sono solo orsacchiotti di carta, è la paura che gli dà quel potere”.